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Gran Moravia: la sfida di Roberto Brazzale

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Che il Grana potesse essere prodotto da un italiano, anche al di fuori dei confini nazionali, appariva impossibile fino a qualche decennio fa. A sfatare questo tabù ci ha pensato un imprenditore, ultimo erede di una famiglia che da sette generazioni produce il Grana Padano: Roberto Brazzale.

Una scelta, questa, che ha fatto molto discutere, riaccendendo un dibattito nel cuore stesso del sistema produttivo italiano, dilaniato da contraddizioni che ne impediscono uno sviluppo adeguato.
A lanciare l’allarme ci pensa un articolo apparso il 4 Giugno 2016 sul The Economist, dal titolo “Per amore della Pizza”, che ha l’ardire di mettere in discussione il concetto stesso di made in Italy, uno degli asset economici su cui si fonda il prestigio stesso della nostra industria agro-alimentare: «La proliferazione delle IG protette dallo Stato sa di produttori che cercano di sfruttare i consumatori. L’Italia rivela un protezionismo innato: invece di competere sui mercati globali, i produttori vogliono tutelare il patrimonio, chiedono aiuto all’Europa per massimizzare i profitti che possono estrarre dai prodotti di qualità. (..) Il genio dell’Italia risiede nella sua inventiva e capacità di adattamento, non in una terra santa e non in una tradizione idealizzata e canonizzata da parte dello Stato. Questa visione porta alla paralisi e alla fossilizzazione culturale».

Brazzale: l’imprenditore veneto lancia la sua sfida produttiva al di fuori dei confini nazionali

Sullo sfondo di questa analisi della realtà economica italiana, di cui Brazzale è uno degli ispiratori, l’imprenditore veneto lancia la sua sfida produttiva al di fuori dei confini nazionali. È proprio lui a raccontarci la sua storia durante un’iniziativa di tre giorni che vede dailygreen ospite nel cuore della Moravia, splendida regione della Repubblica Ceca, attualmente sede produttiva del formaggio Gran Moravia. «Agli inizi degli anni novanta», ci spiega Brazzale, «percepivamo di trovarci di fronte a un cambiamento radicale. Era caduto il muro di Berlino e collassato il patto di Varsavia. Era imminente la scadenza del 1992 che prevedeva che gli stati membri della Comunità Europea convergessero verso standard uniformi, con una maggiore libertà di movimento di capitali e di persone. Prendeva avvio quel processo di liberalizzazione dei mercati che oggi chiamiamo globalizzazione. Si capiva, già allora, che la P.A.C. e la sua impostazione dell’agricoltura, fino a quel tempo, fortemente assistita, non sarebbe durata a lungo. La mia generazione, che negli anni ottanta studiava il nuovo diritto comunitario, iniziava a guardare il nuovo scenario economico come una sfida avvincente. Così iniziammo a girare l’Europa alla ricerca di nuove sfide produttive, esattamente come fecero i nostri nonni già dal 1898 quando, dall’altopiano di Asiago, scesero fino a Zanè vicino Thiene e successivamente, nel 1950, nelle pianure del vicentino per produrre il formaggio Grana».

L’occasione arriva all’inizio del 2000 quando un piccolo caseificio, situato nel cuore della Moravia, chiede al gruppo Brazzale di entrare nella società. Erano a rischio chiusura. Producevano un formaggio duro che, in qualche esemplare, dimostrava una straordinaria qualità, addirittura migliore del Parmigiano Reggiano. Tutto questo innesca grande curiosità. «Andammo a visitare questo caseificio e realizzammo immediatamente una cosa: avevamo trovato una sorta di paradiso terrestre. La cosa che ci impressionò maggiormente fu la struttura agricola di questo paese. Producevano latte di altissima qualità a un prezzo conveniente e questa, per chi come noi trasforma il latte, è una condizione indispensabile. Siamo così entrati in società tenendo con noi i soci cechi».
Da questo momento in poi l’azienda Brazzale, a conduzione italo-ceca, inizia il suo percorso produttivo. Attualmente sono 80 le aziende agricole consorziate con oltre 18 mila capi di bovini di alta genealogia (la metà degli allevamenti sono formati da capi di pezzata rossa) su un territorio di quasi 100 mila ettari; 450 mila litri di latte munti ogni giorno per una produzione quotidiana di 800 forme (circa 220 mila all’anno). «Che tutto questo potesse succedere davvero», ci spiega Brazzale, «erano in pochi a pensarlo. Fare una cosa del genere per l’Italia era quasi una bestemmia. Un’antica azienda italiana che ha fondato il consorzio del Grana Padano e che va in Repubblica Ceca a fare il Grana! Nessuno poteva crederci. In linea di massima noi italiani siamo convinti che le cose di qualità si possono fare solo in Italia. Ma non è assolutamente così. Se le condizioni sono buone gli italiani possono fare bene ovunque. Ed è così che abbiamo deciso di produrre un formaggio che dichiarasse immediatamente la sua provenienza. Per questo abbiamo inventato questo nome: Gran Moravia».

Brazzale, «siamo l’espressione più tradizionale della cultura italiana»

Gran Moravia BrazzaleIl Consorzio del Grana Padano, ovviamente, reagisce molto male e costringe Brazzale alle dimissioni,
ma tutto questo non scoraggia l’imprenditore veneto che inizia una vera e propria battaglia tesa a demistificare tutti i luoghi comuni su cui si fonda gran parte del prestigio dell’industria agro-alimentare italiana.
«Noi», dice Brazzale, «siamo l’espressione più tradizionale della cultura italiana del cibo e della trasformazione dei prodotti agricoli. I processi industriali, infatti, non vanno ad intaccare la qualità del nostro prodotto, ma tutt’al più a moltiplicare processi artigianali per soddisfare una domanda che si fa sempre più ampia. Attorno a questi processi produttivi, noi cerchiamo di creare le condizioni ottimali della filiera che ci fornisce la materia prima da trasformare al fine di avere un prodotto di qualità.
Ma tutto questo non deve far credere che la nostra azienda possa entrare in quel segmento produttivo che comunemente denominiamo “biologico”. Noi sul biologico abbiamo espresso grandissime perplessità. In realtà se voi chiedete a un qualsiasi consumatore “che cos’è il bio?” farà fatica a darvi una risposta. Il bio è principalmente un prefisso che suscita una sorta di suggestione emotiva. In realtà non sappiamo realmente cosa avviene nella filiera produttiva di quel prodotto. Ci fidiamo perché ci piace pensare che quel prodotto sia più amico della natura e più amico del nostro organismo. Ma non c’è nulla di più falso. Quei prodotti seguono un sistema industriale abbastanza omologato che al massimo si avvale dell’utilizzo di concimi organici piuttosto che di concimi di sintesi. Tutto questo non è altro che una colossale operazione di marketing che produce un effetto placebo. Noi abbiamo preferito un’altra strada: presentare i nostri parametri di efficienza della nostra filiera in maniera misurabile e quantificabile. La nostra trasparenza, in tal senso, è una regola assoluta, senza temere di informare il consumatore sulla provenienza del prodotto. Anzi, andandone fieri».

Il fatto che il gruppo Brazzale sia l’unica azienda del settore ad aver avuto avuto il coraggio di avventurarsi in un’impresa produttiva all’estero la dice lunga sull’arretratezza del nostro sistema industriale fermo su posizioni protezionistiche del tutto anacronistiche e fuori dal tempo. «C’è una tendenza tutta italiana», continua Brazzale, «a non considerare “italiano” il processo produttivo che si svolge fuori dai nostri confini, anche se gestito da noi. Questo è un grande errore di impostazione. Spesso, infatti, si tende a considerare made in Italy quei processi produttivi, che pur avvenendo nei confini nazionali, si avvalgono di elementi stranieri: dal personale, alle materie prime, alle tecnologie impiegate. Noi riteniamo abbastanza datato questo atteggiamento. Andrebbe piuttosto elaborato un concetto più ampio di prodotto italiano che tenesse conto di un fatto: lo svolgimento del processo produttivo fuori dell’Italia, in alcuni casi, giova alla qualità stessa del prodotto. Bisognerebbe piantarla di parlare di paesi stranieri. L’Europa l’abbiamo fatta o no? Non mi considero uno straniero in Repubblica Ceca, ma piuttosto cittadino di uno degli stati membri dell’Unione Europea. Se non si accetta questa idea l’Italia non potrà mai competere con il resto del mondo».

Moravia, Rep Ceca

L’uscita di Brazzale dal sistema delle D.O.P. o del biologico ha consentito alla sua azienda una maggiore innovazione, tanto dal punto di vista tecnologico, quanto nell’organizzazione dei fattori produttivi. «Quando un sistema produttivo si istituzionalizza», dice Brazzale, «godendo di sovvenzioni pubbliche, ad essere minacciata è la stessa creatività dell’impresa che, a mio avviso, deve continuamente innovare i propri fattori produttivi. Questi sono sistemi fortemente protettivi che funzionano solo per le aziende aderenti alle corporazioni. Gli outsider sono esclusi e tutto questo va a discapito del consumatore a cui è precluso l’accesso a prodotti, di ottima qualità, che seguono standard produttivi diversi. Qui in Moravia, grazie a un latte straordinario riusciamo a produrre un formaggio di maggiore qualità rispetto a quello che abbiamo fatto in Italia per tantissimi anni, riducendo al massimo i costi. In Italia, infatti, quest’ultimi sono altissimi per qualsiasi voce: dall’energia alle materie prime. Il fatto che l’Italia sia in parità di cambio con la Germania produce effetti drammatici. Questi costi, infatti, gravano tutti sulle imprese senza che ci possa essere una compensazione dell’aggiornamento del cambio; i nostri concorrenti tedeschi e olandesi sono avvantaggiati perché, a parità di valuta, hanno costi di sistema molto più bassi. Qui in Repubblica Ceca non abbiamo trovato vantaggi solo nella riduzione dei costi sul lavoro; non si tratta di una speculazione transitoria di un territorio. Il nostro vuole essere un progetto industriale a lungo termine. Qui abbiamo trovato delle condizioni di efficienza in tutta la filiera: c’è una maggiore disponibilità di terra, una grande cultura zootecnica, meno necessità di irrigare e minori costi per la produzione agricola. Di conseguenza gli allevamenti sono più ampi, c’è più efficienza di scala e le strutture per la mungitura sono modernissime per cui si riesce, con poco personale, a fare un grande lavoro. In più abbiamo creato una filiera ecosostenibile definendo dei parametri che le nostre aziende agricole mediamente devono rispettare: disponibilità di almeno 4,5 ettari per capo in lattazione, dieci volte superiore a quella italiana di 0,5; cuccette individuali per la stabulazione del bestiame, per favorire il benessere e la sanità dell’animale, riducendo l’incidenza di mastiti; apporto di nitrati al terreno di 5 volte inferiore rispetto ai limiti comunitari; salubrità dei foraggi in virtù del clima fresco della Moravia e assenza di aflatossine come la M1 nel latte e quindi nei formaggi. Mettere insieme decine e decine di elementi che favoriscono l’efficienza significa arrivare a un risparmio del 20-25% sui costi di produzione rispetto a quanto accadrebbe in Italia. Per questo riusciamo a coniugare grande qualità a minor prezzo.

Bisogna inoltre aggiungere che la Repubblica Ceca è uno stato meglio amministrato. Due terzi dei comuni sono in attivo di bilancio. È un paese governato con pragmatismo: qui abbiamo un costo del lavoro più basso ma una remunerazione relativa per il lavoratore molto più alta rispetto all’Italia. Questo perché? Non c’è l’aggravio di costi di sistema che producono inefficienza. Sono questi ad abbassare in Italia il potere d’acquisto per i lavoratori aumentando i costi delle imprese e distruggendo la loro competitività. La nostra, dunque, non può essere considerata una delocalizzazione. Da quando abbiamo sviluppato questo processo abbiamo raddoppiato il numero dei nostri dipendenti. Non abbiamo delocalizzato, ma sviluppato all’estero. Il salario netto percepito da un lavoratore ceco è ormai molto vicino a quello di un italiano, ma risulta migliore il suo potere d’acquisto in quanto il costo della vita è più basso. Inoltre in questo paese abbiamo una maggiore tutela per le lavoratrici madri. Possono restare a casa fino a che il bambino compie tre anni. Anche nei nostri contratti industriali abbiamo, in accordo con i sindacati, salvaguardato questa attenzione per le lavoratrici madri». brazzale, logo

Questi sono i dati che Brazzale con orgoglio enuncia senza timore di essere smentito. La sfida, ne siamo certi, continuerà ma ciò che maggiormente ci preme far emergere è lo sfondo problematico che il racconto di una storia come questa ci pone di fronte agli occhi. Problemi ai quali prima o poi bisognerà rispondere e dalla cui risoluzione dipenderà non solo il destino dell’Italia, ma dell’Europa intera. Che il cibo non sia semplicemente un prodotto fra gli altri ma rappresenti la storia e la cultura di un popolo è per noi un fatto assodato. Ma siamo sicuri che la strategia degli O.G.P. o dei D.O.P., nata per tutelare la tradizione gastronomica italiana, non finisca per produrre un effetto di cristallizzazione economica del nostro Paese rischiando di farci perdere delle grosse opportunità?