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Il clima? Sarà più estremo

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clima estremo

Il clima sarà inevitabilmente più ‘estremo’. E’ questa la conclusione cui sono giunti gli esperti della Nasa, di cui, di seguito, pubblichiamo un interessante ed esplicativo dossier che analizza in modo dettagliato le conseguenze del cambiamento climatico e i suoi effetti diretti sulla Terra.

Il dossier sul clima

Secondo il Gruppo Intergovernativo di esperti sui cambiamenti climatici (IPCC), l’incremento del biossido di carbonio e di altri gas serra hanno quasi certamente svolto un ruolo importante nell’aumento della temperatura nel 20° secolo. Proiezioni del modello di clima globale (GCM) fanno ritenere che l’aumento dei gas serra riscalderà il clima di pochi gradi nel 21° secolo.

Una così piccola variazione di temperatura può non sembrare molto seria, fino a quando il tempo locale non varia molto più di tanto di giorno in giorno. Il pur minimo cambiamento del clima globale è, però, foriero di notevoli impatti su aree sensibili del sistema Terra – solo per fare qualche esempio, potremmo assistere ad un crescente livello del mare (che causa un aumento del flusso di marea lungo le coste), ad onde più calde e alla siccità, nonché alla scomparsa in estate del ghiaccio artico.

Gli effetti estremi del riscaldamento climatico

Tra i più importanti e potenziali effetti del riscaldamento climatico, dobbiamo temere cambiamenti negli eventi meteorologici estremi. Le precipitazioni andranno intensificandosi, ma con differenze tra regione e regione: regioni umide come le foreste pluviali tropicali si faranno più piovose mentre regioni semi-aride subtropicali si espanderanno e diverranno più secche.

Questo, tuttavia,è solo uno degli effetti. Parimenti importanti saranno i venti, la grandine, i fulmini e gli incendi che si svilupperanno dai temporali. Vedremo più frequenti tempeste in un clima più caldo? Temporali più impetuosi? Sempre più disastrosi? Non è facile rispondere a queste domande. E’ possibile assistere a tempeste diverse a seconda delle condizioni in cui accadono, come tornado, uragani e cicloni.

Tutte le tempeste possono tuttavia essere pensate come i mezzi più efficaci dell’atmosfera di ridistribuire calore da aree più calde ad altre più fredde. I modelli di clima globale presentano l’atmosfera, a fini esplicativi, su scale spaziali di 100-200 kilometri. Ciò si deve a esigenze di cal-colo al fine di svolgere un gran numero di simulazioni sul futuro climatologico sotto diversi scenari. Al confronto, il clima è in grandissima parte generato da processi che si sviluppano su aree di decine di kilometri.

In questo modo, le variazioni climatiche possono essere desunte solo indirettamente da modelli sviluppati in condi-zioni ambientali di vasta scala. Ciascuna precipitazione atipica, infine, esiste solo per via di lunghe e attendibili registrazioni storiche in certe parti del mondo. Registrazioni per altri aspetti climatici sono molto brevi per prevedere tendenze o rappresentare curve osservazionali: il che rende le tendenze non attendibili. Un evento climatico estremo, per definizione, è raro ma accade indifferentemente in qualsiasi cambiamento climatico. In questo senso, nessun singolo evento – un uragano come Katrina, un tornado come quello di gennaio nel Wisconsin, una bufera di neve come quella registrata nella Costa Orientale, può essere interpretato come una conseguenza di un cambiamento climatico.

Scienziati del clima, non dotati di improbabili poteri divinatori, alcune volte usano tali eventi come icone per aumentare la consapevolezza di ciò che può rap-presentare un mondo più caldo. Se questo sia fatto bene o male può essere discutibile, ma non è la nostra base per predire ciò che potrebbe accadere domani. Nonostante gli ostacoli, sono stati fatti considerevoli progressi nel comprendere come future variazioni climatiche possano influen-zare il tempo. In questo articolo, discutiamo su che cosa è e su cosa non è noto circa il modo in cui il cambiamento del clima potrà alte-rare, ben al di là della pioggia, eventi meteo estremi.

Temporali, fulmini, incendi

I temporali riscuotono minore attenzione rispetto ad altri fenomeni estremi perché sono così comuni e i danni che provocano piut-tosto localizzati. Forse perché dati per scontati, i fulmini negli Stati Uniti sono la seconda causa di morti legate al tempo (dopo le allu-vioni). La mortalità da fulmini è diminuita di quasi 3 punti in un trentennio, diminuzione dovuta probabilmente ad una migliore previ-sione meteorologica che non a qualche cambiamento, a tutt’oggi, nella caduta dei fulmini. La maggior parte delle precipitazioni tem-poralesche di breve durata non produce tuoni e fulmini. Dati del Tropical Rainfall Measuring Mission (TRMM) della Nasa dimostrano che le precipitazioni medie annuali sono molto più copiose sugli oceani che sulla terra. La caduta dei fulmini è comunque più proba-bile nei temporali terrestri che nelle tempeste di mare. Queste mani-festazioni temporalesche sono un effetto del moto convettivo atmo-sferico.

Il riscaldamento della superficie terrestre da luce solare e da radiazione termica infrarossa deve essere compensato da perdite di energia per mantenere una temperatura stabile. La superficie lo fa, in parte, facendo evaporare l’acqua che così si condensa di conserva con le correnti d’aria ascensionali. Questo fenomeno elimina la tem-peratura in eccesso dalla superficie terrestre verso le quote più elevate. L’aria ascendente trasporta le gocce verso l’alto fino a che non sono troppo pesanti per rimanere in alto e cadono sotto forma di precipitazione.

Quando le correnti ascensionali sono vigorose, le gocce d’acqua possono essere facilmente portate al di sopra dello zero termico e in parte si scontrano con “mor-bidi” cristalli di ghiaccio, si fanno più spesse e danno luogo a chicchi più densi di ghiaccio, al cosiddetto “graupel”. La presenza di entrambi, dei cristalli morbidi di ghiaccio e del graupel, che cadono a velocità diverse, pare essere il fattore necessa-rio per la formazione dei fulmini. La differenza terra-oceano ci aiuta a capire come i fulmini potrebbero cambiare col riscaldamento del clima. La gran massa dell’oceano immagazzina calore e si riscalda a malapena nel corso della giornata. La superficie terrestre, che non può accumulare calo-re, riscalda l’aria in maniera significativa dal mattino al pomeriggio.

L’aria che allora risale in moti convettivi è più calda e più leggera di quella che si forma sopra l’oceano. Si creano in tal modo forti correnti ascensionali piuttosto inclini a generare fulmini. Di conse-guenza cresce l’anidride carbonica e viene irradiato più calore verso la superficie terrestre, l’oceano emetterà più vapore acqueo, mentre la superficie, più secca, non può fare questo e, quindi, riscalda l’aria in misura maggiore.

Tutto ciò dovrebbe dar luogo a più forti correnti ascensionali e a un maggior numero di fulmini. Sebbene i moti convettivi ascensiona-li in scala-ridotta non possano essere direttamente simulati dal GCMs, esistono modelli che possono diagnosticarli partendo dai li-velli di umidità e dalla temperatura atmosferica su larga-scala. Con un clima a doppio contenuto di CO2, in uno di questi modelli, le velocità di correnti ascensionali di origine terrestre sono risultate in realtà leggermente più accentuate.

Negli Stati Uniti occidentali, il modello prevede un numero minore di temporali con forti correnti ascensionali, ma circa il 25% in più delle tempeste più forti. Dal momento che un fulmine aumenta in maniera non lineare con la forza della corrente ascensionale, il risultato netto è che la durata del fulmine cresce del 5%. Indipendentemente dalla misura in cui i fulmini aumentano col riscaldamento del clima, i danni da fulmini dovrebbero aumentare per il ruolo che svolgono nell’incendio di aree boschive. Nell’America nord-occidentale, la regione delle fo-reste bruciate a causa dei fulmini si è drammaticamente estesa negli ultimi decenni.

La causa principale di tale fenomeno è il perdurare dell’aumento della siccità della superficie terrestre con l’aumento della temperatura, il che crea più “combustibile” per gli incendi di questo genere. Un certo numero delle recenti stagioni secche può essere attribuito alla naturale variabilità del clima. Ma modelli climatologici dimostrano una consistente tenden-za per aree come il sud-ovest degli Stati Uniti a divenire più secche nel corso del 21° secolo, così come l’abbassarsi del ramo della circolazione tropicale di Hadley si spande verso i poli e trasporta aria secca giù verso la superficie terrestre. Un recente studio GCM prevede decine se non centinaia di incendi in aumento per anno, entro la fine del secolo, in un’area di 4° x 5° di latitudine-longitudine, che è la zona compresa tra il Nord-America e gran parte dell’Eurasia. Al contrario si prevede che gli Stati Uniti orientali diverranno più umidi e piovosi, con un conseguente mi-nor numero di incendi. Gli incendi negli Stati Uniti sono innescati per cause natura-li solo per il 12%, ma questo dato rappresenta il 52% degli acri bruciati, per cui an-che un piccolo cambiamento nel tasso di durata dei fulmini comporta importanti conseguenze.

Temporali violenti e tornado

I temporali a volte si verificano in presenza di un forte vento, e cioè, di un cambiamento, ad una certa altezza, nella velocità e/o nella direzione del vento. Questo forte vento crea un “tubo” orizzontale di rotazione dell’aria. Quando succede un simile temporale, l’aria che sale nella tempesta fa inclinare il tubo rotante nell’assetto verticale. Il risultato può essere un “temporale significativamente violento” con almeno una di queste caratteristiche: grandine più grande di 5 centimetri di diametro, raffiche di vento superiori a 120 km/orari, o un tornado di forza F2 o più sulla scala Fujita. I temporali violenti colpiscono aree limitate e difficilmente prevedibili, ma la distribuzione climatologica, geografica e stagionale degli am-bienti più favorevoli al sorgere di temporali particolarmente violenti può essere de-dotta combinando le stime su larga scala del vento forte e dell’instabilità atmosferica. Come osservato in precedenza, l’aumento di CO2 dovrebbe rendere i temporali più violenti. Il vento forte, tuttavia, è rallentato dalla rotazione della Terra e dalle differenze delle temperature orizzontali, generalmente comprese tra medie latitudini.

Come per tutti i cambiamenti, il riscaldamento climatico non sarà uniforme. Ai tropici, i moti convettivi che liberano ad alta quota il calore di superficie agiscono come un termostato, limitando lo stesso calore di superficie. Nelle regioni polari, dove simili tempeste accadono in misura del tutto trascurabile, il riscaldamento da gas serra staziona in superficie ed è aggravato dallo scioglimento del lucente ghiac-cio marino che è maggiormente esposto rispetto alla superficie nera dell’oceano e riflette più luce solare che poi deve essere assorbita. Il risultato diretto è che nella troposfera inferiore la differenza di temperatura tra le alte e basse latitudini diminuisce il riscaldamento del pianeta, creando tra l’altro meno vento forte. Registriamo in tal modo due effetti tra loro concorrenti sul cambiamento climati-co e sul sorgere dei temporali più violenti: chi dei due prevarrà?

Uno studio, avvalendosi di un modello climatologico regionale e degli stessi indici dei temporali più significativamente violenti, è stato utilizzato per mettere a punto proprie proiezioni e ha trovato che, specialmente negli Stati Uniti centro-orientali (la zona general-mente preferita dal maltempo su scala mondiale), possiamo attenderci, per pochi giorni in più al mese, condizioni favorevoli al sorgere di violenti temporali in un clima doppiamente carico di anidride carbonica.

Una stima più tradizionale, che considera l’instabilità dei cambiamenti climatici tra la più bassa e la media troposfera, trova che, in media, anche se i temporali si presentano con più forti correnti ascensionali, il vento forte spira più spesso sotto la soglia che in genere caratterizza la tempesta violenta. Tuttavia, eventi combinati tra raffiche molto forti di vento e correnti ascensionali veloci aumentano con il riscal-damento del clima, innescando la maggior parte dei temporali violenti più significativi.

Alla fine della gamma dei temporali violenti troviamo i tornado, che, quantunque molto più rari dei temporali, registrano quasi altrettanti incidenti mortali e molti più danni. I tornado sono più difficili da prevedere rispetto agli altri forti temporali. Ma il passato climatologico non ci fornisce nessun suggerimento? Una registrazione meteorologica che copre mezzo secolo ci fornisce un drammatico aumento (circa 14 per anno) nei rapporti statunitensi sui tornado in questo periodo. Curiosamente, però, non si è registrato alcun incremento nel numero dei giorni in cui sono stati segnalati tornado né una piccola diminuzione del numero di tornado segnalati come forti (categoria F2-F5). Un possibile indizio per sciogliere l’apparente discrepanza lo si vede, da un lato, nell’aumento della densità della popolazione degli Stati Uniti e, dall’altro, nei progressi della moderna tecnologia di rilevamento come quella del Doppler Radar. Al momento, pertanto, non è possibile prevedere neanche il sinto-mo di nessun cambiamento climatico sull’intensità o sull’evento del tornado.

Temporali su più larga scala

Gli uragani e gli altri cicloni tropicali possono essere immaginati come motori termici che assorbono energia dall’evaporazione dell’acqua calda dell’oceano e la espellono a temperatura più fredda vicino alla tropopausa dopo che l’aria è salita e si condensata in acqua. La registrazione a lungo termine dei cicloni tropicali atlantici è basata su osser-vazioni parziali perché spesso non sono stati rilevati prima dell’avvento dei satelliti. Tuttavia, una tendenza al rialzo della dissipazione di potenza del ciclone tropica-le nel Pacifico occidentale negli ultimi decenni – dissipazione basata sulla frequen-za, sulla durata e sull’intensità delle tempeste osservate – è ben correlata con l’aumento della temperatura della superficie del mare. Estrapolando questi rilevamenti rispetto ad un clima più caldo e utilizzando proiezioni sull’aumento delle temperature degli oceani da modelli della climatologia globale, ne scaturisce un drammatico aumento della distruttività degli uragani nel corso del secolo attuale.

Un recente studio, tuttavia, ritiene che questo dato possa essere fuorviante. Il freddo al di sopra della temperatura dissipata dalla troposfera è importante al pari del motore termico del ciclone tropicale e al pari della temperatura assorbita dalla su-perficie calda del mare. La temperatura dissipata non dipende solo dallo stato locale ma piuttosto dalle condizioni lungo i tropici e finanche dal modo più o meno efficiente con cui la circolazione termica generale alla stessa latitudine si irradia sulle alte quote. Il fattore rilevante, pertanto, può essere non tanto come mai l’acqua calda si tro-vi in una dato bacino oceanico, ma come il calore interagisca con gli altri bacini oceanici. Negli ultimi decenni del 20° secolo, l’Atlantico si è riscaldato in maniera anomala, ma questo fatto non è destinato a continuare a lungo. Proiezioni che met-tono in rilievo una relativa piuttosto che un’assoluta variazione termica della super-ficie del mare fanno pensare ad un cambiamento solo modesto nella potenza di-struttrice degli uragani nel 21° secolo. Queste deduzioni non sono basate su effettive simulazioni di cicloni tropicali; infatti le regioni soggette ai forti venti non pos-sono essere individuate dagli odierni modelli della climatologia globale. Un approccio a questo problema è costituito da una procedura con cui i cam-biamenti climatici su larga scala e le condizioni oceaniche previste da un modello di rilevamento globale vengono utilizzate come input a scala regionale in grado di predire i cicloni tropicali. Uno studio del genere applicato a molti modelli porta a concludere che ci saranno meno cicloni tropicali atlantici, ma più tempestosi degli uragani più violenti (categoria 4-5). Prudentemente, uno dei quattro modelli esaminati (un modello accreditato) prevede, invece, uragani meno forti in un mondo più caldo. Tempeste a medie latitudini, associate a centri di alta e bassa pressione e a fronti caldi e freddi, si profilano su più larga scala (un migliaio di chilometri o più) alla stregua di qualsiasi tempesta.

Apparentemente queste tempeste sono chiara-mente rilevate dai modelli, ma la gran parte delle loro precipitazioni è generata in regioni frontali, che figurano in scala per soli dieci chilometri. I cicloni si formano dalla potenziale energia contenuta nella differenza di tempe-ratura lungo i tropici tra zone calde e fredde ( sud contro nord o oceano contro ter-raferma). L’aria calda spostata in direzione dei poli verso l’aria più fredda si solle-va dal basso, mentre l’aria calda, spostata verso l’equatore dietro basse correnti d’aria più calda, converte l’energia da potenziale in cinetica provocando un notevo-le trasporto di calore verso i poli. La logica convenzionale suggerisce che, poiché le regioni polari dovrebbero scaldare più di quelle ai tropici nel secolo avvenire, i cicloni dovrebbero indebolirsi. Esistono, però, parecchie complicazioni. In primo luogo, le differenze di tempe-ratura equatore-polo scemano solo vicino alla superficie.

Alle quote più elevate, attualmente accade il contrario, e in uno dei modelli ciò provoca la formazione di se-gnali di tempesta che tendono a intensificarsi con il riscaldamento della temperatura. In secondo luogo, dal momento che un’atmosfera più calda conterrà più vapor acqueo, il calore latente rilasciato quando l’acqua pervenuta si condensa e precipita, con l’aria che sale lungo i fronti caldi, tende a formare i futuri cicloni. La maggior parte dei modelli presi in considerazione simulano in generale pochi cicloni tropicali, ma in numero maggiore degli uragani, in linea con il riscaldamen-to climatico.

Un recente studio, tuttavia, utilizzando un modello a più alta risoluzione, non rileva una futura intensificazione del fenomeno tranne che per le precipi-tazioni. Un recente argomento di notevole interesse è se le forti tempeste di neve degli ultimi due inverni della costa orientale degli Stati Uniti siano legate al cambiamento del clima. Questi eventi sembrano essere diventati un test di Rorschach di opi-nioni di fondo circa l’influenza del riscaldamento climatico. Sono previste più nevicate in caso di clima più caldo, ma è meno chiaro se ciò implichi più copiose pre-cipitazioni di neve (in forza delle maggiori precipitazioni in generale) o meno neve (perché le tempeste invernali tendono a manifestarsi più spesso con una temperatu-ra più fredda e di conseguenza provocano pioggia).

Il caso dei recenti inverni nevosi, però, è più semplice, perché nessun piccolo periodo di tempo inusuale può mai essere interpretato in termini di cambiamento climatico. L’inverno nella costa orientale del Nord America e in Europa riguarda il North Atlantic Oscillation (NAO), un’altalena di pressione atmosferica tra la bassa climatologia dell’Islanda e quella alta delle Azzorre. Quando la NAO prevede bur-rasca, la bassa e alta pressione sono più deboli rispetto ai livelli normali e manife-stazioni d’aria fredda e neve si fanno più probabili negli U.S. orientali. Questa circostanza si è dimostrata responsabile nella nevicata dell’inverno 2009-2010 e nel successivo severo inverno 2010-2011 sulla costa orientale degli Stati Uniti. In mol-te altre parti del mondo, del resto, questi inverni sono stati più caldi del normale. L’oscillazione climatica nel Nord Atlantico è relativamente imprevedibile ed è difficile sostenere che il tempo cambierà significativamente in un mondo più caldo.

Conclusioni: perchè il clima sta diventando così estremo

Nonostante le loro diverse scale di grandezza, tra modelli di vento e fonti di energia, è emerso un comune fino narrativo per tutti i tipi di tempesta: con riferi-mento al riscaldamento del clima, potremmo incorrere in un minor numero di tem-peste in generale, ma in tempeste più violente. Detto in modo diverso, un clima più caldo comporterà domande più impegnative sull’atmosfera capace di trasportare calore verso l’alto e verso i poli. Tutto ciò potrà avvenire in maniera più efficace con un minor numero di eventi e non in modo che ciascuno di questi compia più del trasporto termico richiesto.

Questa conclusione è incerta – la scienza della previsione dei cambiamenti cli-matici in materia di perturbazioni è, se si può dire così, ancora infantile. Non tutti i modelli concordano con un risultato generalmente consensuale, e fino a quando e a meno che la base concettuale per una revisione della teoria verso meno ma più violente manifestazioni temporalesche non sia solidamente stabilita, le proiezioni di modelli di clima globale dovrebbero essere considerate alla stregua di ipotesi plau-sibili. Quello di cui l’opinione pubblica più si preoccupa è il danno causato dalle tempeste.

Ciò dipende di più e soprattutto dai cambiamenti che si verificano nelle stesse tempeste, e a questo punto noi possiamo stabilire basi previsionali meno aleatorie. Indipendentemente da come i fulmini cambino con il riscaldamento del clima, l’essicazione nelle zone boscose dell’America nord occidentale le esporrà probabilmente a maggiori danni da incendi. Indipendentemente dal fatto che uragani e cicloni si incrementino col calore, l’aumento del livello del mare, della popola-zione e dello sviluppo implicano danni da inondazioni e da mareggiate per le aree costiere. Una risposta razionale del settore pubblico e privato al rischio di danni da tempesta in una situazione di cambiamento climatico deve quindi riconoscere le incer-tezze scientifiche che persistono, probabilmente, ben oltre il momento in cui debbono essere assunte le decisioni. Tale risposta deve concentrarsi sui rischi e sui vantaggi della previsione per gli scenari peggiori, e riconoscere che la combinazio-ne tra tendenze sociali e predizioni più sicure del cambiamento climatico rende i fu-turi investimenti economici significativamente più probabili e più prevedibili.