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Kennedy, l’invisibile pragmatico

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Kennedy
Il Presidente americano John Fitzgerald Kennedy

“Quando vedono te, vedono quello che vorrebbero essere; quando vedono me, vedono quello che sono. Per questo mi odiano”. È la celeberrima battuta di Gli intrighi del potere,la pellicola del 1995 diretta da Oliver Stone, in cui l’attore Anthony Hopkins, nei panni di Richard Nixon, esprime la sua opinione sugli americani avendo davanti a sé un ritratto di John Fitzgerald Kennedy, uno dei personaggi storici più discussi dalla storiografia del XX secolo. Il recente cinquantesimo anniversario dalla sua morte ha rappresentato la circostanza ideale per tornare a dibattere sul suo operato da Presidente degli Stati Uniti e sulla sua eredità politica. E in quest’ottica si inserisce lo studio del milazzese Santi Cautela Kennedy, un socialista alla Casa Bianca (Historica, 2015), libro in cui si ripercorre l’intero percorso politico di Kennedy e dove l’autore siciliano approfondisce soprattutto la sua formazione culturale e i rapporti con il pensiero socialista di matrice europea e italiana in particolare. Ma Cautela si spinge oltre e, nelle tre parti di cui si compone il suo volume, cerca di ricostruire l’azione politica dell’ex Presidente Usa arrivando a inquadrarlo come una figura di rottura nel panorama politico americano cercando di rifuggire, allo stesso tempo, dai consueti stereotipi legati alla sua immagine.

Santi Cautela, un Kennedy socialista?

Le origini culturali di Kennedy

Sin dalle prime pagine, Cautela concentra i suoi sforzi per illustrare la formazione culturale dell’ex Presidente Usa mettendo subito in chiaro la sua chiave di lettura: “Kennedy andava valutato non solo per quello che fu ma anche per quello che sarebbe potuto essere. Un modello di socialismo lontano dall’approccio europeo quasi determinista, sicuramente moderno e bipartisan, distante persino da chi il socialismo l’aveva fabbricato e boicottato, eppure un esperimento vero, forse non riuscito in toto, ma sicuramente intrapreso con dinamicità e senso della responsabilità”. Il giovane Kennedy visse profondamente la grande Depressione degli anni ‘30, un evento che lo portò gradualmente a scostarsi dalle iniziali posizioni conservatrici per avvicinarsi a teorie politiche vicine al socialismo europeo.

Durante il suo soggiorno alla London School of Economics ebbe modo di conoscere l’economista marxista Harold Laski, un incontro che diede modo al giovane Kennedy di maturare le sue prime convinzioni socialiste. Tornato in patria si iscrisse all’Università di Harvard e qui conobbe un altro importante autore, lo studioso socialista Walter Lippmann che contribuì ad affrancare il giovane Kennedy dal conservatorismo paterno. Solo la fine della seconda guerra mondiale e l’avvio alla carriera giornalistica convinsero il futuro Presidente a intraprendere la carriera politica: “Maturo, sicuro di sé, acculturato e ormai autonomo nelle posizioni assunte in materia di questioni pubbliche, era pronto al grande salto nel buio della politica americana”. Ma come potremmo definire il Kennedy prima del suo impegno politico diretto? “Kennedy conservatore? Kennedy socialista? Kennedy liberale? […] lo stile di vita, la sua formazione culturale e universitaria, lo avevano plasmato come un sostenitore del capitalismo americano, in particolare di quel capitalismo umano che Roosevelt aveva difeso, a fianco degli stessi sindacati. Un liberale atipico, spesso indipendente e contraddittorio, inamovibile in politica estera e ancora troppo inesperto sul fronte interno”.

Kennedy e la Nuova Frontiera

La fine della guerra di Corea e l’elezione di Eisenhower nel 1953 chiudevano una stagione della politica americana e ne aprivano un’altra. In particolare, cominciavano a emergere nella società americana differenti esigenze economiche e sociali legate al suo rapido sviluppo e le elezioni del 1958 avevano sancito questa dinamica regalando una consistente maggioranza numerica ai democratici nelle due Camere. Cominciavano ad affermarsi figure come il democratico Lyndon Johnson, il repubblicano Richard Nixon e il pastore Martin Luther King, a testimonianza che la tematica dei diritti civili dei neri si faceva sempre più pressante nell’agenda politica americana.

 Come si poneva Kennedy nel periodo storico in cui cominciò a elaborare il suo disegno complessivo sulla società americana? In politica interna, specie sulla tematica dei diritti civili si mostrò sostanzialmente conservatore: “L’occasione venne quando si dovette votare la proposta di estendere il diritto di far parte delle giurie federali anche ai neri. Kennedy, che era ormai lanciato per la corsa alla Presidenza del sessanta, non si sentiva di tradire i rapporti coi democratici conservatori del Sud, restii ad appoggiare questo emendamento. La legge passò ma fu un fuoco di paglia: il cammino per il riconoscimento dei diritti civili era ancora lungo e tortuoso e Jack non poté sottrarsi alle critiche dei liberal. Ancora una volta la parte da conservatore di Kennedy sembrava prevalere”. Sul versante estero, invece, Kennedy non intendeva rinunciare a una certa competizione militare e ideologica con i sovietici e i cinesi, nella convinzione che, nei rapporti internazionali, la Presidenza Eisenhower fosse stata troppo immobile. Secondo Kennedy, gli Stati Uniti dovevano farsi portatori di un rinnovato attivismo, specie economico, soprattutto nei confronti dei Paesi emergenti: “Kennedy credeva che sarebbe bastato esportare il modello liberale, facendolo sperimentare al mondo in prima persona, per abbandonare il fascino e l’aderenza alle rivoluzioni comuniste. Non servivano dunque armi o guerre: la passione per la libertà avrebbe distrutto le vecchie ideologie”. In estrema sintesi, “la Nuova Frontiera [si orientava] verso una nuova politica sociale, più dinamica e democratica, in grado di superare i tradizionali schieramenti americani. Una politica di rinnovamento che avrebbe profuso nella nuova amministrazione una intensa ma breve ventata socialista nel mare post-moderno. Un vento neo-socialista e neo-internazionalista. E mentre il vecchio conservava il nuovo, il conservatore diventò liberal, questa volta senza refusi o influenze paterne”.

Il socialista di frontiera, l’apertura a sinistra in Italia e la guerra del Vietnam

Eletto trentacinquesimo Presidente degli Stati Uniti alle elezioni del 1960, Kennedy entrò in carica il 20 gennaio 1961. Non fu un esordio facile data anche la composizione delle nuove Camere dove il neopresidente poteva godere di una larga maggioranza seppur molti deputati democratici erano di provenienza sudista e quindi molto conservatori: “Un Congresso così ostile – che restò tale nonostante la squadra di governo fosse stata ‘allargata’ infastidendo molti – e una esperienza non ancora matura, soprattutto in economia, non facilitarono le cose al Presidente neo-eletto”. In politica interna, Kennedy si mosse molto bene sul fronte dei diritti civili intuendo che il voto dei neri poteva essere decisivo per la sua rielezione nel 1964 mentre sul lato economico e finanziario subì diversi passi falsi vedendo frustrate le sue proposte in tema di abbassamento delle tasse. Qui Cautela evidenzia bene il fatto che “malgrado le premesse ottenute dalla ricostruzione storica e politica del suo mandato, in concreto, l’azione politica di Kennedy fu largamente rallentata e ostacolata dagli oppositori, per cui la Nuova Frontiera non trovò facile vita, come già ribadito, nei tre anni e mezzo di presidenza. Lo stesso Kennedy avrebbe confidato ai suoi di voler lavorare per il ‘dopo’ 1964, onde poter completare il ciclo delle riforme qualora fosse stato rieletto, con un Congresso magari meno ‘ostile’”. In politica estera, Kennedy si trovò di fronte due vere e proprie “patate bollenti”: la Baia dei Porci e il Vietnam. La prima fu risolta brillantemente tantoché l’autore milazzese evidenzia come “il mese di ottobre del 1962 fu il momento migliore della Presidenza Kennedy ma anche il più difficile in assoluto, dato che il pericolo di una terza guerra mondiale – dalle ripercussioni apocalittiche – sembrava davvero, finalmente, allontanato […] E fu anche per questo che Kennedy ricordò quel mese così delicato, che sarà sembrato interminabile, come i ‘33 giorni più lunghi della mia Presidenza’”. Sul fronte della penisola indocinese, la questione era più problematica. L’intenzione di Kennedy era quella di reagire alle continue provocazioni comuniste, cercando di sostenere il regime del Vietnam del Sud ma senza interferire nella sua autonomia politica: “Il fattore Cina, con la sua politica aggressiva, alternata a un isolazionismo internazionale, diede molti problemi agli Stati Uniti, ben prima che Kennedy ereditasse alcune beghe militari. Prima di tutto c’era quell’esigenza post-bellica di assicurare nel Pacifico – tutt’altro che l’Oceano della Pace – un ‘cordone blu’ che tenesse lontano il pericolo comunista. Assicurata l’alleanza col Giappone, l’Australia, la Guinea e regolarizzata la spinosa enclave coreana, l’Indocina era l’ultimo corridoio sovietico che poteva paventare una nuova e più grave ‘Pearl Harbor ideologica’”. Kennedy cercò di elaborare una soluzione intermedia tra una pericolosa escalation militare e un dichiarato ritiro. Tentò in tutti i modi di persuadere i comunisti inviando alcune decine di migliaia di consiglieri militari con il compito di addestrare e preparare le forze vietnamite del Sud. Sperava così di indurre Ngo Dinh Diem, leader del Vietnam del Sud, a mettere mano alla situazione del Paese adottando tutta una serie di riforme e di dissuadere i comunisti dai loro attacchi inducendoli a trattare. In sintesi, Cautela osserva correttamente come Kennedy “nonostante gli errori, [agisse] con assoluto realismo, cercando di trovare una ‘terza via’ tra guerra ostinata e ritirata incondizionata”.

Anche nel nostro Paese si manifestarono i riflessi della politica estera kennedyana. Nel corso del 1961 Arthur Schlesinger arrivò in Italia con il preciso intento di coinvolgere il partito di Pietro Nenni in eventuali maggioranze governative. Solo pochi anni prima, tale obiettivo sarebbe stato visto con orrore dall’opinione pubblica americana ma “gli uomini della Nuova Frontiera credevano, togliendo il veto americano, di favorire il naturale corso della politica italiana e il suo processo di riforme”. Cautela riporta nelle pagine del suo libro un episodio interessante per capire l’evoluzione della politica statunitense nei confronti del PSI: “Durante un ricevimento nei giardini del Quirinale tra Kennedy e i leader dei partiti italiani dell’area “democratica”, il Presidente americano diede un’attenzione primaria a Pietro Nenni, concedendosi una lunga discussione […] Il ponte politico tra i due Paesi e tra i due massimi sistemi (capitalismo e socialismo) sembrava di nuovo manifestarsi con il patrocinio kennedyano, non più Senatore stavolta, ma Presidente”. Il veto nei confronti dei socialisti venne così meno e nel 1963 Nenni divenne Vicepresidente del Consiglio nel I Governo Moro: “La via alle riforme sociali, in Italia, era stata finalmente aperta, e Kennedy, nelle vesti di ‘socialistadi frontiera’, aveva fatto la sua piccola grande parte”.

Kennedy, un pericoloso socialista?

Kennedy sapeva che lo scorcio finale del 1963 era un momento importante per lanciare la sua ricandidatura alle Presidenziali dell’anno successivo. Segnali positivi in termini di popolarità c’erano in tutto il territorio americano ma negli Stati del Sud permanevano ancora sentimenti ostili. Ecco allora l’idea di intraprendere una visita presidenziale a Dallas, là dove maggiori erano le resistenze alla Nuova Frontiera specie negli ambienti finanziari vicini ai petrolieri texani: “Lo scopo era proprio quello di bilanciare ed unire le forze democratiche conservatrici del Sud, e non visitare una città chiave come Dallas equivaleva ad alimentare le tensioni politiche che già spaccavano il Paese, soprattutto sulle tematiche annesse ai diritti civili”.

Quello che accadde a Dallas quel giorno è ormai storia conosciuta. E Cautela si pone tutta una serie di interrogativi. Cosa avrebbe fatto Kennedy fino alla sua rielezione, il “giovane conservatore, pericoloso neo-socialista e politico liberale, in un mondo moderno, sempre meno conservatore, sempre meno socialista e sempre più contraddittoriamente liberale”? Da che parte sarebbe stato? Destra? Sinistra? Nel socialismo moderno? Nel liberalismo conservatore? Cautela sottolinea come Kennedy ascoltasse sempre le differenti opinioni dagli ambienti politici e intellettuali e sfugge da rigide catalogazioni partitiche avendo dimostrato continuamente la propria indipendenza e autonomia: “Ecco perché fu un Presidente di rottura: seppe prendere idee politiche da destra e sinistra, senza tuttavia perdere il suo senso pragmatico a tratti innovativo, a tratti conservatore”. Viene così a delinearsi un profilo politico a tutto tondo, un Kennedy profondo conoscitore dell’utilizzo della retorica idealista ma anche un personaggio decisamente concreto. Emerge così la delineazione di un robusto socialismo temperato dalla cultura politica americana, molto lontano da fascinazioni ideologiche tipiche dell’Europa continentale: “Ne viene fuori il ritratto di una politica kennediana di ampio respiro, una corte di Camelot inconsapevole di aver creato i presupposti di un nuovo modo di intendere le riforme, tra pragmatismo, ideologie rivisitate e moderate azioni pacifiste, allergiche alla timbratura partitica – nel senso europeista – di destra e sinistra – prima e dopo Dallas – e difficilmente inquadrabili in una nomenclatura – nel senso americanista – repubblicana o democratica”.