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La pazza gioia di Virzì conquista il David di Donatello

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La pazza gioia

La pazza gioia di Virzì conquista il David come miglior film italiano del 2017

È La pazza gioia il film che ha conquistato il premio più ambito della serata dei David di Donatello, la cui consegna si è tenuta ieri a Roma. A far esplodere i commenti in rete, più che la notizia in sé, è stato il discorso di ringraziamento di Valeria Bruni Tedeschi, che interpretando nel film il ruolo di Beatrice si è aggiudicata il David come migliore attrice protagonista, e ha voluto condividerlo sul palco con l’altra metà del film, Micaela Ramazzotti. Un gesto di candore assoluto così come il suo discorso, completamente fuori dagli schemi, che ha travolto la ritualità della cerimonia sforando abbondantemente i quarantacinque secondi a disposizione dei premiati, e regalando alla platea in ascolto un’irresistibile alternanza di sorrisi e lacrime. La cosa più singolare è che il discorso della Bruni Tedeschi, così sopra le righe e così “bipolare”, sembrava mettere in scena dal vivo il presupposto stesso del film: una storia in cui, come nella vita, salute e follia, gioia e dolore si confondono costantemente, così come sottolineato dallo stesso regista, che ieri sera ha omaggiato il cinema italiano per essere riuscito ad abbattere le barriere tra commedia e tragedia.

Il titolo è volutamente ambiguo, così come dolceamaro è tutto il film. Cos’è la pazza gioia? Cosa significa essere felici? È evidente che cercare la risposta significa relativizzare la domanda. Noi che guardiamo non penseremo che le due protagoniste sono donne felici, anzi. Eppure per Beatrice la pazza gioia sta tutta nei beni materiali, per Donatella la pazza gioia sta nel ritrovare suo figlio. È questo che le tiene in vita, che le fa muovere: non diversamente da ciascuno di noi, ma con intensità “clinica” – ancora una volta la riflessione sulla follia riduce la distanza tra chi si sente normale e chi non lo è – queste due donne guardano alla realtà applicandovi un filtro correttivo, qualcosa che possa alleviare la loro infelicità restituendo l’immagine di cui hanno bisogno.

Beatrice, personaggio irresistibile che ci fa scoprire il registro brillante della Bruni Tedeschi, è una sorta di Madame Bovary in versione icona gay: bella, accessoriata, naif, riesce a conquistarsi la nostra simpatia pur essendo una irriducibile classista. Vive proiettata in un passato berlusconiano, fatto di opulenza e amori adolescenziali, e non si rassegna alla povertà dell’istituto psichiatrico che la ospita, dando ordini a tutti come fosse la padrona. È capace di trasgressioni almodovariane, come quando “celebra la messa”, dispensando in una sorta di allegro baccanale pillole extra di psicofarmaci alle altre pazienti dell’istituto.

Donatella, ragazza madre allo sbando, privata del figlio dai servizi sociali, ha mitizzato la figura del padre, musicista fallito ed egoista, convincendosi che lui sia l’unico ad averla mai amata. L’unico momento di gioia per Donatella è stata la nascita del figlio, che ha cercato di sottrarre all’infelicità della vita senza di lei, immergendosi in quello che, nella sua testa, era una sorta di liquido amniotico perenne.

Beatrice e Donatella imparano a volersi bene perché, nel corso del loro breve viaggio, sono di sostegno l’una all’altra: quando una viene meno è l’altra a prendere le redini perché il viaggio possa continuare. Le due donne oscillano costantemente tra follia e normalità: Beatrice si rivela una figura chiave nella mediazione con la famiglia adottiva del figlio di Donatella, riuscendo a far comprendere le ragioni della madre naturale, Donatella interviene ogni volta che Beatrice supera il limite, riportandola con i piedi per terra. L’incontro tra i loro mondi, così diametralmente opposti, è la genesi di un nucleo familiare, un incastro che funziona, qualcosa che le normalizza e le rende più forti, e più felici, insieme che da sole.