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Chi ha ucciso Albert Ayler?

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Albert Ayler's fiery saxophone influenced the late period compositions of John Coltrane.

Il 25 settembre 1970 le acque newyorkesi dell’East River restituiscono il corpo del sassofonista Albert Ayler. La fine di uno degli artisti neri più popolari di quel periodo non è dovuta alla casualità né a un suicidio.

Un assassinio feroce e anonimo

Ayler è stato ucciso e poi gettato nella acque del fiume. I suoi assassini non avranno mai né un nome né un volto. Con lui scompare uno dei più geniali e contraddittori interpreti della riscossa dei neri d’America non soltanto nel jazz. La sua musica, sia nel percorso interno al free jazz che nella successiva e contrastata evoluzione, è pervasa dalla preoccupazione di non perdere le radici popolari e di farsi comprendere dalla “sua” gente. Per questo quando nei quartieri neri delle metropoli statunitensi si diffonde il seme fecondo della politicizzazione Ayler è uno dei primi artisti free a mettersi in discussione. Alla fine degli anni Sessanta la sua musica segna una svolta. Le sue improvvisazioni prendono sempre più in prestito gli accompagnamenti dal rhythm and blues e dal rock and roll.

Vorrei suonare qualcosa che tutti possano canticchiare

Non è un’apertura commerciale e nemmeno una presa di distanza dal free jazz, ma un tentativo di mettere in discussione l’asettica evoluzione staccata dal contesto sociale di riferimento. Lo fa e lo dice. «Mi piacerebbe suonare qualcosa che tutti possano canticchiare. Voglio suonare i motivi che cantavo quando ero piccolo e melodie popolari che tutto il mondo possa comprendere. Vorrei utilizzare quelle melodie come punto di partenza e lasciarle fluttuare all’interno dei miei brani. Da una semplice melodia vorrei passare a trame più complesse per tornare nuovamente nella semplicità andare poi oltre, verso suoni sempre più complessi e più densi». C’è una critica esplicita allo schema elitario in cui tende a rinchiudersi il free jazz e l’altrettanto esplicito tentativo di costruire una sorta di linguaggio musicale capace di connettere la tradizione con le nuove aspirazioni degli afroamericani. La sua morte chiude anticipatamente il discorso.

 

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Gianni Lucini
Scrivere è il mio principale mestiere, comunicare una specializzazione acquisita sul campo. Oltre che per comunicare scrivo anche per il teatro (tanto), il cinema e la TV. È difficile raccontare un'esperienza lunga una vita. Negli anni Settanta ho vissuto la mia prima solida esperienza giornalistica nel settimanale torinese "Nuovasocietà" e alla fine di quel decennio mi sono fatto le ossa nella difficile arte di addetto stampa in un campo complesso come quello degli eventi speciali e dei tour musicali. Ho collaborato con un'infinità di riviste, alcune le ho anche dirette e altre le dirigo ancora. Ho organizzato Uffici Stampa per eventi, manifestazioni e campagne. Ho formato decine di persone oggi impegnate con successo nel settore del giornalismo e della comunicazione. Ho scritto e sceneggiato spot e videogiochi. Come responsabile di campagne di immagine e di comunicazione ho operato anche al di fuori dei confini nazionali arrivando fino in Asia e in America Latina. Dal 1999 al 2007 mi sono occupato di storia e critica musicale sul quotidiano "Liberazione".