Sono le prime ore del mattino di mercoledì 3 febbraio 1960. Roma è immersa in una sorta di cappa umida formata da una pioggerellina fine, impalpabile, che penetra nelle ossa e lascia una brutta sensazione di freddo. All’improvviso il silenzio che grava su questa Roma assonnata viene lacerato dal rumore di una frenata sul fondo bagnato, dallo schianto secco e lamentoso delle lamiere che si piegano e dallo scroscio cristallino dei vetri rotti. Un’auto americana si è schiantata contro un camion. L’autista è morto sul colpo.
Il baffo da mascalzone hollywoodiano
La vettura è una Thunderbird rosa. Tutti a Roma sanno che quella è l’auto di Fred Buscaglione, il cantante con il baffo da mascalzone hollywoodiano, la voce roca, il bicchiere di whisky a portata di mano e la sigaretta sempre accesa. La notizia vola di bocca in bocca e in breve tempo centinaia di persone si radunano per rendere l’ultimo omaggio al primo grande “cantautore maledetto” della musica leggera del dopoguerra. Finisce così la storia del torinese Ferdinando Buscaglione, classe 1921, studente modello del Conservatorio “Giuseppe Verdi” della sua città che a quindici anni già si guadagna da vivere suonando il contrabbasso nei night e coltivando, tra le maglie della censura fascista, la passione per il jazz. Quando parte per il militare c’è la guerra, ma per lui dura poco perché nel 1943 viene catturato dagli americani e internato in un campo di concentramento in Sardegna. Le sue qualità non sfuggono ai carcerieri e ben presto si ritrova a suonare jazz e canzonette con l’orchestra militare della radio alleata che trasmette da Cagliari. Dopo la Liberazione torna casa e riprende i contatti con i suoi amici musicisti. Nel 1946 suona il contrabbasso nella jazz band del fisarmonicista Germonio e inizia a scrivere canzoni con il paroliere Leo Chiosso. Siccome non interessano a nessuno decide di cantarle da solo. Il suo debutto discografico avviene nel 1956 con Che bambola! che sfiora il milione di copie vendute senza quasi nessuna promozione e Porfirio Villarosa.
Idolo dei giovani
«Il musicista nomade dalla voce di carta vetrata», come è stato definito da Gianfranco Baldazzi, diventa un protagonista dei principali locali notturni accompagnato dalla sua band, gli Asternovas, e l’idolo dei giovani anticonformisti dell’epoca. Ironiche e ispirate alla atmosfere dei film “noir” americani, le sue canzoni fanno di lui il campione del primo boom discografico italiano. La sua è una sfida alla melodia tradizionale. I critici all’inizio storcono il naso. «Non sembra un cantante, ma un attore che racconta storie. La musica leggera è un’altra cosa». In realtà la sua voce si appoggia soltanto alla melodia e preferisce scivolare su ritmiche prese a prestito direttamente dal jazz e mai inserite prima d’allora in brani di musica leggera. È un anticipatore della “ribellione” dei cantautori e dei primi urlatori, ma non se ne rende conto. Vive la sua avventura con meraviglia e scetticismo. Quando muore ha trentanove anni ed è all’apice del successo. La sua scomparsa lascia un vuoto che, nonostante i ricorrenti imitatori che periodicamente si dichiarano o vengono dichiarati suoi eredi, non verrà più colmato da nessuno.