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Alessandro Moscè, un poeta italiano

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Lo scrittore e poeta marchigiano Alessandro Moscè

Per chi frequenta Roma, sia esso un residente oppure un turista di passaggio, e gli capita di passare per il quartiere EUR, facilmente si imbatterebbe per il Palazzo della Civiltà Italiana e non potrebbe non notare la famosa frase sul popolo di poeti, santi e navigatori incisa sulle quattro testate dell’edificio. È stata questa la scintilla che mi ha fatto pensare a uno dei poeti italiani contemporanei più talentuosi, Alessandro Moscè. Poeta e critico letterario, Alessandro Moscè  nasce nel 1969 e attualmente vive a Fabriano. Scrive su diverse riviste letterarie come Nuova Antologia e Pelagos e sul quotidiano Il Corriere Adriatico. Daily Green è andata a intervistarlo.

Alessandro Moscè, un poeta italiano

Alessandro, vuoi parlarci della tua poetica e dei motivi ricorrenti nelle tue poesie? Sembra di capire che ti ispiri profondamente alla poesia lirica e alla tradizione poetica italiana.

I miei punti di riferimenti sono i grandi maestri italiani del Novecento, in effetti. Saba tra tutti, con la sua poesia onesta. Quindi Montale, con il capolavoro Ossi di seppia che comprai in un mercatino rionale appena maggiorenne. Caproni, Bertolucci, Volponi, Gatto, Penna, Luzi, Raboni e potrei citare molti altri poeti.

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Alessandro Moscè durante una conferenza

La lirica, il canto, la tradizione sono la mia formazione, come una voce che scaturisce dal fondo dell’infanzia. Credo di essere un poeta di luoghi con una vena esistenzialista e metafisica. La mia è una poesia terrigena, concreta, mai sperimentale. La forma è un mezzo, non lo scopo essenziale della mia ricerca. Dal sentimento poetico ha origine la vita, la natura, quindi un’idea di totalità che mi rimanda al “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo” montaliano. Non posso non menzionare il grande marchigiano, Giacomo Leopardi, che mi ha insegnato il senso di finitudine umana come un presagio e insieme una fonte della scrittura poetica. Anche la precarietà ha un suo calco: in questo una rara malattia infantile, debellata, ha forgiato la mia connotazione esperienziale che credo compaia in modo evidente. La conoscenza del concetto di “residenza” di Franco Scataglini, il poeta anconetano che si inventò una sua lingua artigianale, è stata un’altra tappa fondamentale della mia formazione. “Che senso ha vivere qui e non altrove?”, si chiedeva Scataglini prefigurando Kant e la sua piccola città.

Alessandro, quanto contano i luoghi domestici (la casa, i giardini, la città) nelle tue poesie?

Moltissimo. I luoghi domestici sono quelli che meglio conosciamo e che meglio ci conoscono, in fondo. Tolstoj diceva: “Se vuoi essere universale parla del tuo villaggio”. La casa è un grande contenitore di memorie, con i suoi oggetti, i suoi quadri, le sue stanze attraversate un’infinità di volte. Io ho abitato sempre nella stessa casa, quindi ho la percezione dell’infanzia legata perfino ai pavimenti. Un luogo ideale, di scoperta oltre la quotidianità, tra spirito e carne. I giardini mi attraggono e spesso li ho descritti.

Penso all’hortus conclusus di Federico, il duca di Urbino. San Bernardino è uno spazio romantico che non ha nulla di fastoso, di barocco, a differenza dei giardini orientali. Rappresenta una percezione romantica, tipica dell’Occidente. Il giardino che amo di più si trova nella città dove vivo, Fabriano. È un giardino spoglio, che immagino per lo più nella sua versione autunnale e invernale. Solitario, crepuscolare, abbandonato, nostalgico, come trattenesse gli umori non solo naturalistici, ma anche dell’uomo. C’è una mia poesia contenuta nella raccolta L’odore dei vicoli (I Quaderni del Battello Ebbro, 2004) in cui scrivo: “Vuoi venire / dove il mondo si assottiglia / e l’eco dei grilli non si sente più? / Io non posso tardare , / il giardino mi aspetta dalla piscina delle carpe ai giochi…”.

Alessandro, come vedi l’attuale situazione della cultura e della letteratura italiana?

Assai critica, perché la società dell’intrattenimento e della comunicazione ha sostituito quella del sapere e della conoscenza. Siamo immersi in una società liquida dove la battaglia delle idee sembra già persa.

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Alessandro Moscè a una presentazione

La letteratura ha sempre meno incidenza, sempre meno presa. È ormai ridotta ad un pubblico di nicchia. Eppure rappresenta l’amore, il tempo, l’assoluto. Un concentrato di sensazioni immaginifiche che dà il senso di pienezza alle cose. La civiltà delle immagini prima e quella di Internet poi hanno introdotto un dialogo sordo e ridotto in pillole dove non si interagisce più con l’altro. L’altro può essere anche un libro composto di personaggi di carta, ovviamente. L’epoca dello short message è senz’altro destinata a produrre un’involuzione, tralasciando del tutto gli archetipi dell’esistenza: nascita, morte, dolore ecc… Ci troviamo a vivere solo il tempo presente che massifica le coscienze e che non può essere considerato un bene comune. Il flusso indifferenziato di notizie è un vincolo superficiale, asettico. Non so se la cultura e la letteratura sopravvivranno a questo scempio. Ciò mi provoca inquietudine, ma anche una certa rassegnazione. Chi leggerà più i poeti?

Non posso non chiederti di una delle tue passioni più grandi: la Lazio. Cosa significa per te la squadra biancoceleste, Alessandro?

Il calcio e la Lazio in particolare sono una passione, è vero, ma anche simbologia, la metafora della lotta per la sopravvivenza.

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La copertina di “Il talento della malattia” di Alessandro Moscè

Il calcio è rito, evasione, diceva Pasolini. I miei primi sussulti si legano all’epopea del 1974, anno in cui la Lazio vinse il primo scudetto. Mio padre, tornando da Roma (dove lavorava) il venerdì notte, mi prendeva in disparte e mi raccontava delle gesta di Giorgio Chinaglia come si trattasse di una favola. Vivo nella provincia marchigiana, e l’Olimpico mi sembrava un’arena di gladiatori, Roma l’America. Oggi che Giorgio Chinaglia non c’è più, come per un presagio, il mio romanzo Il talento della malattia uscito per Avagliano lo scorso anno, appare anche un riconoscimento affettivo al controverso, bizzoso leader di una volta. Nasco con queste ombre di ricordi, come la morte assurda di Luciano Re Cecconi, il centrocampista della Lazio ucciso per sbaglio dentro una gioielleria. Il telegiornale della sera diede la notizia e precipitai nello sconforto. In quel momento capii che c’è qualcosa che ci sfugge, che non possiamo mai sapere. Il destino, il caso, perfino Dio… La Lazio è una maglia, un patrimonio personale. La seguo ancora, forse con meno trasporto di una volta. Potrei rispondere come Pasolini: “Senza scrivere mi sarebbe piaciuto diventare un calciatore”. Naturalmente della Lazio. Tanto che per non dimenticare gli anni di Chinaglia sono diventato amico del figlio che vive a Boston e sono tra i maggiori sostenitori affinché la salma del padre venga trasferita dalla Florida a Roma, nella sua città preferita: quella del grande centravanti del 1974.