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“In fondo al mare”, il racconto di Marco Zarfati

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Eccomi qua, al parcheggio del bosco dell’anfiteatro ad aspettare mio figlio. Mi ha chiesto di passare insieme il weekend.
Sono molto nervoso. Non passiamo del tempo insieme da anni ormai. Da quando sua madre mi ha lasciato.
E anche quando c’ero non è che sia stato un padre modello.

Vuole attraversare il bosco. Passarci la notte e arrivare al mare.
Ha detto che pensava a tutto lui.
Per ora ha pensato solo a farmi aspettare sotto il sole però.

Tra l’altro siamo già stati qui. Ma non credo lui se lo ricordi. Era troppo piccolo.
I problemi con sua madre già erano enormi, e l’angoscia che mi portavo dentro mi creava un blocco anche nei suoi confronti. Non riuscivo a parlarci, mi sembrava di essere imbavagliato.

Eccolo finalmente.
“Ciao ragazzo!” lo saluto quando scende dalla macchina.
“Ciao” mi risponde senza entusiasmo. “Andiamo” aggiunge, e si addentra nel bosco.
Lo seguo, senza fare domande o fargli notare che era da un po’ che lo aspettavo perché non voglio passare per rompiscatole, ma mi sembra tutto troppo veloce.

Appena ho il tempo di mettere a fuoco mi rendo conto che non ha portato niente con sé, nemmeno uno zaino.
E meno male che pensava a tutto lui.
“Ma hai dimenticato la roba in macchina o non hai portato nulla?” chiedo senza successo.
Neanche si gira, continua a camminare.

Forse vuole uccidermi.

Forse me lo merito.

Certo speravo in un weekend di ricongiungimento con lui. Ma se il destino, sotto forma di mio figlio, è venuto a chiamarmi, non mi voglio tirare indietro.
Voglio concedergli almeno questo. Gli ho rovinato la vita, e sono arrivato abbastanza in fondo alla mia.

Continuiamo a camminare a ritmo serratissimo fino a quando non cala il sole.
Ho fame, e sete. Ma a quanto pare il falò con i marshmallows in stile famiglia americana non è contemplato.
“Fermiamoci qui” si pronuncia finalmente.
Mi siedo, con un linguaggio del corpo che non nasconde la stanchezza.
“Non abbiamo niente da mangiare?” chiedo già sapendo la risposta, solo per sottolineare la sua negligenza.
“Hai fame?”.
“No”, mento istintivamente per timore di deluderlo.
“Bene” aggiunge, e si avvia da solo nel bosco.
Non ho nemmeno il coraggio di chiedergli dove stia andando. Il blocco che avevo anni fa è tornato a galla come se non fosse passato un giorno.

Dopo qualche minuto comincio a pensare che ci siamo, che mio figlio abbia nascosto un’ascia qui vicino e sia andato a prenderla per farmi a pezzi.
Incredibilmente invece torna con delle pigne e dei rami.
Lascia cadere una pigna per terra e la fa rotolare vicino a me, dicendo: “puoi mangiare qualche pinolo se vuoi”. Poi si inchina per accendere un fuoco.

Mi sveglio di soprassalto con un suo strattone. Sono sdraiato per terra, ma non ho neanche il tempo di rendermene conto che scatto in piedi e lo seguo. È giorno pieno. Devo essere crollato per la stanchezza ieri sera.
Continuiamo a camminare a ritmi serratissimi, come se dovessimo raggiungere qualcosa al più presto.

Finalmente arriviamo al mare.
C’è un fiumiciattolo qui vicino, me lo ricordo dall’ultima volta che ci siamo stati.
Lo raggiungo, e ho un flashback: mi sembra di vedere mio figlio bambino starsene lì seduto, e di nuovo sento quel bavaglio alla bocca.
Basta. Ora ho finalmente l’occasione per riscattarmi e non voglio lasciarla scappare. Devo parlarci.
Non appena compiuto questo pensiero un colpo fortissimo mi fa perdere i sensi, riesco solo a dire: “Ahia”.