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L’ombra del giorno, un racconto tra memoria e realtà

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L'ombra del giorno tra memoria e realtà

Davanti alla severità del retro del Palazzaccio si staglia imponente a nascondere il Tevere romano all’altezza di Ponte Umberto I; di fronte c’è il Cinema-Teatro Adriano, multisale dalle rosse sedute, che ospita la preview de “L’ombra del giorno”.

Ingresso contingentato, super green pass e mascherina ffp2 costituiscono il promemoria per il non ti scordar che siamo in pandemia, per poco, ma ancora non ti scordar. 

Ciak. Titoli. La vita di provincia entra nella piazza, oltre i vetri la maestra guida la scolaresca, composta e in fila per due, fra chi passeggia e chi fa altro. Torniamo al resoconto dei fatti di All’ombra del giorno ma anticipiamo la dedica, prima dei titoli di coda, omaggio ad Antonio Salines, ricordato quale persona ed amico oltre che da artista, nella conferenza stampa nell’ora successiva alla durata del lungometraggio, dal regista Piccioni e dal cast all’unisono.

La trama del film è alle prime battute, ecco anche i protagonisti in scena. La sensazione è quella di trovarsi su una strada, percorribile in entrambi i versi: memoria o realtà? La precarietà di ieri è una situazione attuale, come sarà quella futura?

Anna:“Cerco lavoro…Ho bisogno di un lavoro.” Luciano:”Come mai siete qui, ad Ascoli? Va be’. Fatti vostri”. Così la donna si ritrova subito in cucina in prova per qualche giorno e davanti ad un piatto caldo. Si giunge a sera, tra verdure cavate e servizio ai tavoli, con la richiesta educata del claudicante – reduce di guerra e titolare del Caffè – Luciano ad Anna, mentre quest’ultima sta per uscire. Luciano: “Aspettate, esco con voi o avete fretta?”. Anna: “No, no. Aspetto.”. Camminano chiacchierando fin sotto la vicina casa di lui. Poi il saluto che fa ben sperare, misto di impegno e altro. Luciano:”Allora a domani.”Anna:”A domani.”

Una bella misticanza (l’uso del termine precedente è prettamente dettato dal mantenere l’aria tipica del piccolo centro urbano) di spunti riflessivi. Si potrebbe andare avanti ad oltranza senza toccare il periodo storico di riferimento, contesto esplicito dello sviluppo della proiezione. A coinvolgere l’attenzione selettiva visiva non è “l’illogica mania” degli accenti tonici, degli asterischi * e delle schwa che percuote la società dalla gente comune alla politica fino agli intellettuali. Ma c’è qualcosa di più sottile che non sfugge e che fa capolino in modo audace e determinato, sibillino e coraggioso tra il condursi e i dialoghi dei personaggi, tutte figure calibrate al ruolo – attori disposti alla maschera, e non asserviti, caratterizzandola con perspicacia quasi nel voler dare al proprio corpo quella voce intellettuale di pensiero e a volte di protesta: nasce una maschera sociale proiettata ad non introiettare bensì esternare ma con filtri una dissonanza videomaking.

Anna è lì, vis-a-vis con Luciano:”Non siamo mica in Germania. Non ancora!”. Il fascismo e la propaganda fascista, le leggi razziali, la dichiarazione di guerra sono lo sfondo drammatico dell’era più buia del Paese. La famiglia patriarcato, che determina comparsate per padri, madri e figl*, il controllo e le denunce, le punizioni le minacce e le torture, gli obblighi e l’obbedienza al duce pena la morte sono calate sugli italiani, sugli abitanti di Ascoli sottotraccia, ambiguamente, subdolamente. Nemmeno la scelta accurata delle canzoni d’epoca e di motivetti di successo nazionali insieme ai tormentoni americani (un grazie spassionato al Maestro per il rewind di capolavori d’altri tempi non vissuti) garantiscono a lungo la leggerezza a sbaragliare quel nero strisciante e invasivo che colora contesto, testi e corpi e teste. Nemmeno le scelte amoreggianti e di azione di Luciano e il segreto celato di Anna e il romantico francese di Emil, le caste e pudiche immagini di coiti e amplessi del più soft trittico amoroso, le singole vicessitudini (senza togliere nulla a nessuno, voilà una sequenza di nomi random: Annibale, Corrado, il Professore e il camerata Osvaldo, la mamma del giovane cameriere a chiamata, l’amica di Luciano, per esempio) brevi e intensi paragrafi di storie di vita, fanno molto. Cambia il punto di vista e improvvisamente lo sguardo si ritorce nel Caffè, investendo cose e persone, quasi come accade con le schegge di vetro di una vetrina che va in frantumi, con tutta la prepotenza e l’irruenza della realtà. L’ombra del giorno, appunto, inteso, perché no, come il lato oscuro degli individui, delle personalità e degli accadimenti storici in una società cittadina, civile e morale, alla luce dell’archetipo junghiano. Il rumore del regime è ridondante, sfiancante, manipolatorio e littorio. I fotogrammi del piccolo balilla in maschera antigas che tira calci ad un barattolo di latta con il sottofondo delle sirene antiaeree nega l’infanzia e catapulta nel mondo degli adulti, violentemente, l’innocenza. Un monito estemporaneo ma di lungo effetto. Iperventilazione, nessun squilibrio umorale, connessione emotiva e pensiero critico: “milieu interieur” o omeostasi? (Medicina, salute e sanità hanno poca voce in capitolo nel movie.)

Arriva in soccorso alla visione del delirio di questa incessante autorappresentazione di potere e di concetto del superuomo, la cultura nelle sue diverse declinazioni: il testo di poesie dell’ermetico Giuseppe Ungheretti, il latino, le citazioni, il solo nominare saccentemente Kant e Aristotele, i termini francesi, l’accenno al manifesto degli intellettuali asserviti al fascismo, redatto da Giovanni Gentile, e in contrapposizione, a ricordo e in risposta, l’antimanifesto degli intellettuali come Benedetto Croce che comprendono in tempo il totalitarismo di Benito Mussolini e il rischio dell’errore di mischiare politica e cultura. I percorsi combaciano e appaiono quasi come una greve previsione taciuta. Ogni cosa è al suo posto. Si odono chiare le frasi di Luciano “…in guerra mi hanno insegnato che non bisogna guardare solo avanti, ma che bisogna guardarsi anche attorno”, e che saranno la sua salvezza ma sono linee guida universali della vita, partendo dall’assunto primis sulle persone, le quali non sono “sole”: le persone sono parte fondante, uniche e irripetibili, della collettività e la loro forza è rappresentata proprio dall’essere saldi e solidali alla difesa di dignità, principi e diritti e doveri, alla base della convivenza e della pace fra i popoli. L’identità personale è funzione, aspetto centrale della coscienza di sé, consentendo la rappresentazione e la awareness di specificità e estensione ininterrotta nel tempo e nello spazio del proprio io e, al contempo, assumendo a pieno titolo il manifesto di quella sua diversità in relazione agli altri e alla realtà che è punto di controversie e di forza allo stesso modo, si evolve e, volendo usare un sol termine, è autodeterminazione pura. L’economia capitalistica ha le ore contate dalla transizione ecologica in atto, essa sente il fiato sul collo della nascita dell’economia sostenibile e in questo braccio di ferro – in potenza, in strategia, in compromessi e finanza – bisogna fare fronte unico con le armi del dialogo e della negoziazione ai colpi di coda di un sistema che prova di tutto, dalla malattia alla guerra per il controllo del mercato mondiale, a discapito di vite umane e non, indistintamente, cavalcando terrore e ignoranza fino a sconvolgere confini e quotidianità.