Home C'era una volta La jungle music di Bo Diddley

La jungle music di Bo Diddley

SHARE

Il 2 giugno 2008 muore ad Archer in Florida, Bo Diddley considerato, insieme a Fats Domino e Chuck Berry, uno dei padri del rock and roll. La causa della morte è da attribuirsi a un infarto, ma da tempo era immobilizzato da un ictus. Il suo primo nome è Elias Bates e è nasce il 30 dicembre 1928 a McComb nel Mississippi. Sua madre, troppo povera per tenerlo con sé lo affida a una cugina, insegnante precaria a Chicago, che gli regala anche un nuovo cognome. Elias Bates diventa così Elias McDaniel.

Il ragazzo di strada e la “musica del diavolo”

Sono i nuovi genitori ad assecondare la sua passione per la musica indirizzandolo allo studio del violino. Il giovane Elias si ritrova così a suonare nell’orchestra della chiesa battista Ebenezer. Con lui c’è un altro ragazzo che si chiama Leroy Jenkins e che diventerà un grande del jazz nell’Art Ensemble of Chicago. In quel periodo non è proprio un angioletto tutto casa e chiesa. La strada è la sua vera dimora. Inizia anche a praticare con una certa regolarità il pugilato e sempre più spesso, lasciato a casa il violino, si esibisce con una chitarra agli angoli della strada per raccogliere qualche soldo. Gli amici cominciano a chiamarlo Bo Diddley, un soprannome che gli resterà appiccicato per sempre  e di cui lui stesso confesserà di ignorare l’origine. La svolta del ragazzo sul piano esistenziale non piace né alla madre adottiva né agli zii, che erano predicatori e diaconi e consideravano il blues “musica del diavolo”. Un giorno decidono di costringerlo a smettere. Gli parlano e a brutto muso gli dicono che non può restare nella loro casa chi si diletta a suonare musica “malvagia”. Per tutta risposta, Bo se ne va di casa. All’inizio degli anni Cinquanta gira per le strade e i locali di Chicago con Billy Boy Arnold, un suonatore di maracas e uno di washboard.

La febbre del rock and roll

La sua musica diventa popolarissima. Bo sposta il blues su un altro piano, gli dà un’anima nuova, un’indole speciale, un ritmo indiavolato che qualcuno poi chiamerà rock and roll. Nel 1954 Bo e i suoi amici incidono il provino di una canzone intitolata Uncle John e lo portano prima alla United Artists, quindi alla Vee-Jay e finalmente alla Chess Records. A Leonard Chess la canzone piace, ma le parole no. Chiede quindi a Bo di riscrivere il testo. Lui lo fa e la intitola semplicemente con il suo nome: Bo Diddley. Il brano esce nel febbraio del 1955 su etichetta Checker, una sussidiaria della Chess. Sul retro c’è un altro pezzo destinato a vivere per sempre come ‘I’m a man’. È l’inizio di una produzione straordinaria. Un’intera generazione rock si è fatta le ossa su quel ritmo particolare che viene chiamato “Diddley beat”, da Elvis Presley ai Rolling Stones. Il successo di Bo segna l’inizio della febbre del rock’n’roll. Ribattezzata “jungle music” la carica conquista anche i giovani bianchi che, proprio con lui, iniziano a comprare dischi di artisti neri. I suoi primi dischi dimostrano come fosse un innovatore incredibile e un anticipatore. I suoi esperimenti con gli effetti della distorsione iniziano più di dieci anni prima di quelli di Jimi Hendrix. Bo Diddley vive  a lungo in California, prima di trasferirsi con la moglie e i quattro figli nel New Mexico. Si fa anche eleggere vicesceriffo nella città di Las Lunas. Consapevole e molto orgoglioso di essere un punto di riferimento per le star del rock accetta volentieri di tornare in sella e partecipare alla registrazione per la RCA dell’album The 20th anniversary of rock’n’roll, con una formazione che comprende Billy Joel, Roger McGuinn, Joe Cocker e Keith Moon. Nello stesso periodo ricopre anche la carica di vicesceriffo . Alla fine degli anni Settanta, accetta di accompagnare in tournée i Clash, che lui considera i continuatori della sua “jungle music”.

Previous articleAgroinnova in scena per l’Ambiente
Next articleBologna, capitale mondiale dell’Ambiente
Gianni Lucini
Scrivere è il mio principale mestiere, comunicare una specializzazione acquisita sul campo. Oltre che per comunicare scrivo anche per il teatro (tanto), il cinema e la TV. È difficile raccontare un'esperienza lunga una vita. Negli anni Settanta ho vissuto la mia prima solida esperienza giornalistica nel settimanale torinese "Nuovasocietà" e alla fine di quel decennio mi sono fatto le ossa nella difficile arte di addetto stampa in un campo complesso come quello degli eventi speciali e dei tour musicali. Ho collaborato con un'infinità di riviste, alcune le ho anche dirette e altre le dirigo ancora. Ho organizzato Uffici Stampa per eventi, manifestazioni e campagne. Ho formato decine di persone oggi impegnate con successo nel settore del giornalismo e della comunicazione. Ho scritto e sceneggiato spot e videogiochi. Come responsabile di campagne di immagine e di comunicazione ho operato anche al di fuori dei confini nazionali arrivando fino in Asia e in America Latina. Dal 1999 al 2007 mi sono occupato di storia e critica musicale sul quotidiano "Liberazione".