Home Eco Culture Merito, la “malattia” italiana

Merito, la “malattia” italiana

SHARE
Merito
La copertina di "Merito(fobia)" di Assia La Rosa ed Elita Schillaci

“La verità ingombrante, evidente e inconfutabile, è un’altra: l’Italia contrasta il merito. Lo svilisce, lo mortifica, lo isola, lo svaluta, lo combatte, lo uccide”. È questa la tesi dominante di Merito(fobia) di Assia La Rosa ed Elita Schillaci, un agile libro uscito per Rubbettino nel maggio 2014.

Merito, questo “nemico”

Una verità ingombrante, l’Italia contrasta il merito

Le due autrici, rispettivamente giornalista-imprenditrice nel campo della comunicazione ed ex Preside della Facoltà di Economia dell’Università degli studi di Catania, mettono il dito nella piaga di uno dei principali difetti culturali della nostra Penisola: il mancato riconoscimento del merito; che non significa, automaticamente, del talento ma, per la stragrande maggioranza dei casi, dell’impegno e della volontà delle persone. In qualunque contesto sociale italiano, dalla politica alle professioni, i meritevoli subiscono, secondo le due autrici, una particolare forma di mobbing: soffrono l’isolamento degli altri, vengono spietatamente combattuti e, alla fine, costretti ad andarsene per cercare un ambiente più salubre dove far emergere le proprie qualità. Tutto questo inevitabilmente, porta, concludono La Rosa e Schillaci, a un immiserimento del background sociale in quanto a rimanere sono “strilloni e portaborse [che] hanno imparato che basta impugnare la falce del merito per picchiare poi con il martello della meritofobia”. D’altro canto, l’unico sistema a disposizione dei non meritevoli, degli incapaci e degli incompetenti è quello di “inquinare” lo stagno, di impoverire il contesto perché riconoscere il merito, automaticamente, porterebbe a una selezione qualitativa che farebbe emergere i migliori e i meritevoli.

Schillaci, La Rosa e l’immiserimento della cultura

Infine, Schillaci e La Rosa sottolineano anche un portato culturale spesso non sottolineato adeguatamente nel dibattito pubblico ma che, in realtà, ha una grande importanza e cioè l’opportunismo dell’utilizzare il tema delle pari opportunità; un sempre più fastidioso retaggio culturale che l’Italia si porta dietro dal ’68 e che costituisce un paravento ideologico particolarmente nocivo e che, spesso, danneggia le donne più capaci e competenti.

Nell’analizzare la situazione italiana, le due autrici mettono in evidenza non solo i sintomi di questa “malattia” ma anche l’accertamento di quelle che possono essere le cause del problema. La prima è che chi dovrebbe valutare con precisi criteri il merito è spesso un “giudice” non imparziale: “Sempre più veniamo giudicati nel nostro merito da giudici che meritevoli non sono. O meglio, lo sono, ma secondo altri parametri che spesso rifuggono dalla misurazione della competenza, dello sforzo e del committment”. In secondo luogo, rilevano La Rosa e Schillaci, esiste già al blocco di partenza di ogni individuo un divario antimeritocratico che porta le due autrici ad affermare che la competizione è già falsata all’origine: “Per capire i meccanismi della meritofobia si deve pensare a una gara ai cui blocchi di partenza i partecipanti non siano nelle stesse condizioni”.

I meritevoli e la consapevolezza di questo gap

Tuttavia, pur partendo con questo gap iniziale, i meritevoli hanno una freccia importante al proprio arco ossia rendersi consapevoli della situazione truccata: “Però se si allena con tenacia, se sa che deve faticare di più, e con maggiore sforzo, diventerà anche più forte, e alla fine, anche con le palle ai piedi, anche con mille slalom per evitare trabocchetti, ostacoli, burocrazie e sovrastrutture, arriva”. La corsa del meritevole è poi disturbata da numerosi ostacoli e, nello specifico, dalle cosiddette “filiere del demerito” e del loro perfido operare. È chiaro che chi ha il pregio di evidenziare competenze e qualità ha la sua controparte nel sottolineare le incapacità altrui e per questo i meritevoli sono percepiti come un pericolo da rimuovere a tutti i costi. È così che il meritevole “riesce ad attrarre come il miele su di sé antipatie, gelosie, stizze, invidie, rabbie, corpi contundenti e anticorpi velenosi. Siluri di anticorpi”.

E qui La Rosa e Schillaci fanno emergere un’importante considerazione di carattere storico e culturale che ha accomunato spesso e volentieri comunisti e cattolici: “C’è stato un momento in Italia in cui parlare di merito sembrava contrastare i principi della democrazia e delle pari opportunità. Tutti dovevano essere uguali: trattati allo stesso modo, valutati allo stesso modo. Poi questo è diventato un sistema…e ha nascosto incompetenze, furberie, prepotenze. Con il paravento del principio dell’eguaglianza, che è diventato il manifesto della mediocrità dell’arroganza”. E se non bastasse manipolare la valutazione del merito, discriminare sin dalla partenza e coalizzarsi contro il meritevole, ecco allora l’entrata in campo della rappresentazione negativa del “colpevole”, dipinto come uno “zombie”: “Il risultato? Isolare il meritevole, lasciarlo solo, tanto solo! O peggio, delegittimarlo, depotenziarlo, sputtanarlo [in quanto è] uno zombie spregevole e ingombrante da schivare come la peste”. Le argomentazioni delle due autrici si allargano anche a considerazioni di carattere economico-culturale, specie nell’affrontare il tema della “generazione degli sdraiati”: “La generazione degli sdraiati – come li definisce Michele Serra – si è dimenticata del merito.

Il più forte è davvero il più corretto?

Del resto, se sono sdraiati, sono impigriti dall’obesità d’amore, che li ha paralizzati attraverso falsi bisogni e un eccesso di consumi”. E qui La Rosa e Schillaci puntano il dito sul mancato stabilimento di regole precise e nell’incapacità di farle rispettare, con la conseguenza di aver creato una profonda frattura di carattere sociale: “In tutti i contesti in cui lavoriamo siamo circondati da comportamenti dettati da arrivismo e senza regole. Anzi c’è una regola: vince sempre chi è più forte. Questo sarebbe normale in un approccio evoluzionista, solo che da noi il più forte è sempre quello più scorretto, il più aggressivo e il meno meritevole, non il più evoluto e intelligente”.

Dopo aver passato in rassegna un lungo elenco di “negatività”, tuttavia, le due autrici segnalano che le avversità non solo rendono consapevole il meritevole ma anche più determinato a raggiungere l’obiettivo arrivando a fare un vero e proprio “l’elogio del malessere” in quanto “subire l’affronto delle filiere del demerito, contrastare la fatale tentazione dell’auto-isolamento, organizzarsi mentalmente e fisicamente per reagire al sopruso, alla fine finisce per fortificare invece che mortificare [e] consente di precostituire le condizioni che rendono la tua mente preparata all’interpretazione, alla capacità di disancorarsi dalle routines e dalle certezze”. La Rosa e Schillaci, nella seconda parte del libro, illustrano una carrellata di esempi meritevoli che ce l’hanno fatta, che si sono reinventati un mestiere e riplasmato la propria personalità e il proprio modo di vivere: dalla ballerina all’artigiano, dal designer all’architetto solo per fare alcuni esempi. A testimonianza che, nonostante tutti gli ostacoli, la possibilità di emergere e di dimostrare le proprie qualità è una prospettiva possibile anche in un Paese così profondamente antimeritocratico come l’Italia.