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Potere e cinema, uno “Scandalo in sala”

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Cinema
La copertina del documentario "Scandalo in sala"

Ci sono stati film che hanno diviso l’opinione pubblica. C’è stato un cinema che ha indotto il Paese a riflettere su sé stesso. E ci sono state opere che hanno segnato un periodo e agitato le coscienze. E per questo contrastate e censurate.

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E proprio sul rapporto tra Cinema e Potere è incentrato Scandalo in sala. La sfida tra Potere e Cinema in Italia, film documentario realizzato da due registi, Serafino Murri e Alexandra Rosati (in foto), e prodotto dall’Istituto Luce Cinecittà che è uscito il 10 dicembre in dvd e sarà proiettato in un tour di presentazioni con l’inizio del 2015.

“Scandalo in Sala”, Potere e Cinema secondo Murri e Rosati

Un Paese in preda al conformismo delle “due chiese”

Il documentario di Murri e Rosati ripropone l’immagine di un cinema italiano indipendente, capace di produrre delle pellicole di grande qualità e di enorme pregio artistico in un’Italia, tra gli anni Quaranta e Settanta, dove il solo fatto di rivendicare libertà espressiva era visto con sospetto soprattutto da quelle che Pier Paolo Pasolini chiamava le “due chiese”, ossia la DC e il PCI che, di fatto, esercitavano sulla società italiana il potere politico, da una parte, e l’egemonia culturale, dall’altra. Nonostante le pressioni e le censure del tempo, dal film dei due registi romani emerge un panorama cinematografico particolarmente ricco dal punto di vista culturale (non dimentichiamo che, nel periodo considerato da Murri e Rosati, il cinema era la seconda industria italiana nel mondo). In questo modo, Scandalo in sala ci guida attraverso l’incontro (o, per meglio dire, lo scontro) tra il cinema italiano e il Potere politico, religioso e culturale. Pellicole come Totò e Carolina di Monicelli, La dolce vita di Fellini, Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pasolini, I Pugni in tasca di Bellocchio, Ultimo tango a Parigi di Bertolucci e Todo Modo di Petri, sono gli esempi più fulgidi di un cinema italiano particolarmente vivace, pregno di una forza espressiva che sapeva proporre speranze di cambiamento a una società italiana che, al contrario, correva verso l’omologazione e l’indifferenza e che, al giorno d’oggi, potrebbe costituire, soprattutto per le nuove generazioni “digitali”, una ragione di riflessione sul nostro tempo.

La parola ai registi

Per approfondire meglio alcuni aspetti del documentario, abbiamo rivolto ad Alexandra Rosati e a Serafino Murri alcune domande in merito al loro lavoro. Guardando Scandalo in sala si ha l’impressione di trovarsi di fronte a una società italiana del tempo profondamente intrisa di conformismo dal punto di vista culturale; una barriera che costituiva per il cinema indipendente un forte ostacolo per la diffusione e promozione dei propri contenuti. Era davvero così forte il conformismo, specie se pensiamo alle “due chiese” di cui parla Pasolini?

Serafino Murri: Uno dei più grandi registi del secolo scorso, il polacco Krzystof Kieslowski, diceva che la censura ideologica, e parliamo di quella dura e pura nel clima della guerra fredda, è stata il suo collaboratore più formidabile, il suo miglior sceneggiatore. Senza la censura non sarebbe mai riuscito a crescere e a trovare il modo di esprimere la complessità e le contraddizioni della società del suo tempo, in quel modo così sottile e inattaccabile, profondo e universale che è stato la linfa dei suoi film. Come dire: quando il potere è così esplicito e scoperto, aiuta a diventare più intelligenti di lui. L’Italia è sempre stata un paese anomalo, non solo perché la Repubblica è nata sotto l’egemonia americana-democristiana, che fin dall’inizio si è giovata dell’appoggio degli elementi più subdoli e antidemocratici della società, ma proprio perché aveva in sé il più grande Partito Comunista d’Occidente legato al potere sovietico, che, quanto a ortodossia, aveva poco da invidiare alla DC.

L’aspetto utopico dell’egemonia culturale comunista ha fatto fiorire la più grande stagione artistica dell’Italia unita, ma per svolgere il suo ruolo di alternativa al potere democristiano, il PCI doveva istituzionalizzarsi e gradualmente eliminare il dissenso interno e disconoscere i “cani sciolti” come Petri e Pasolini, spesso massacrati da un “fuoco amico” incrociato, dal Partito come dall’antagonismo del Movimento studentesco. Ma l’opinione pubblica italiana tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta non era così conformista e cinica come quella della deteriore post-modernità che viviamo oggi. Nella sua ingenuità e faziosità, il Cinema trovava ancora il modo di schierarsi, erano battaglie civili portate avanti in nome di un’idea del mondo, che è proprio quello che oggi sembra scomparso del tutto. Il conformismo anti-ideologico attuale, nell’opinione pubblica come nel cinema è, di gran lunga peggiore di quello ideologico e appassionato di un tempo.

Come mai avete scelto di narrare le vicende di questo complicato rapporto tra il Cinema e il Potere attraverso le parole di personaggi come Marco Bellocchio, Bernardo Bertolucci, Nanni Moretti, Wilma Labate, Marco Tullio Giordana, Vittorio Taviani e Francesca De Sapio, e anche di critici come Alberto Crespi e Monsignor Dario Viganò?

Alexandra Rosati: Le scelte sono state fatte in fase di scrittura, spesso si sa da dove si parte e dove si vuole arrivare, ma durante il tragitto ci possono anche essere incontri imprevisti. Bellocchio, nella sua complessità, è un autore che ha dissacrato ogni forma di potere rappresentata dalle Istituzioni, così come Bertolucci, che però ha subito delle conseguenze molto più feroci. Moretti ha trovato il modo di annullare ogni forma di controllo creandosi una vera e propria autonomia dal “sistema”, un traguardo fondamentale in un paese come il nostro. Labate ha vissuto in prima persona gli anni del Movimento Studentesco, che a detta di Pasolini è stato, insieme alla Resistenza, l’unica esperienza democratico-rivoluzionaria del popolo italiano. Giordana ci ha raccontato e ci racconta con i suoi film alcuni dei passaggi storici più importanti, in maniera intimista e universale, portavoce dunque di un mondo che non va dimenticato. Vittorio Taviani, che parla anche a nome di Paolo, è l’esempio di un impegno politico inarrestabile, osteggiato fin dagli esordi e culminato con la censura del film La notte di San Lorenzo. De Sapio, essendosi formata in America, ha una visione più ampia del cinema, testimone diretta delle difficoltà a cui va incontro chiunque voglia esprimersi liberamente. Critici colti e preparati come Crespi e Viganò non potevano non esserci, anche per una certa affinità di pensiero, che per quanto riguarda Viganò possiamo piacevolmente riscontrare nel suo saggio La maschera e il potere. Tra le nostre scelte, purtroppo, manca uno scambio diretto con Monicelli, cineasta fondamentale, che abbiamo però tra noi grazie agli autori de La versione di Mario.

Scandalo in sala sarà in giro per la Penisola a partire dall’inizio del nuovo anno. Quali città toccherà e quali aspettative nutrite in proposito?

Serafino Murri: Scandalo in sala farà parte di una piccola rassegna itinerante, “The Best of 2014”, assieme ad altri documentari prodotti recentemente da Cinecittà Luce. Presumibilmente le città che saranno toccate saranno le “grandi piazze” cinematografiche come Roma, Milano, Torino, ma al momento è ancora tutto in via di definizione. Quel che è certo è che la dimensione collettiva della rassegna è emblematica: non è un limite, ma un segnale importante. Il cinema documentario, negli ultimi anni, è forse la più autentica e libera (oltre che la più vasta in termini produttivi) forma di racconto della società nel nostro paese reale, un genere estremamente vario, sfaccettato, che si prende il tempo di cercare, approfondire e raccontare, e si concede il lusso di andare contromano sia all’estemporaneità, che spesso gioca brutti scherzi alla cultura “prét-à-porter” e pseudo-arrabbiata della “democrazia digitale”, che all’insostenibile piattezza di regime dell’info-tainment dei business media.

Sarebbe pretenzioso, in un paese così indifferente a tutto, avere delle aspettative che vadano al di là del fatto, già di per sé straordinario, che dei documentari non sensazionalisti e dai contenuti non troppo “leggeri” possano essere visti in sala. Mi pare già di poterlo definire un piccolo successo. Se poi quella certa “scorrettezza politica” delle tesi del nostro piccolo film che mettono a fuoco le responsabilità uguali e contrarie delle diverse parti politiche nel determinare lo svuotamento del potenziale “eversivo” di un cinema di idee che ha caratterizzato per trent’anni la nostra produzione nazionale fino a ridurlo a una specie di genere ancillare a quello delle produzioni televisive, riuscisse anche a generare una discussione aperta e senza reticenze, sarebbe addirittura incredibile.

In un periodo storico come l’attuale, decisamente segnato dal disimpegno politico e culturale da parte delle giovani generazioni, vi aspettate che il vostro documentario possa aiutare a risvegliare un po’ la coscienza critica del cinema e dell’opinione pubblica?

Alexandra Rosati: Sarebbe ipocrita rispondere che non ci auguriamo che ciò accada, ma le aspettative sono ben altra cosa. Viviamo in un paese sempre più anestetizzato e dove c’è sempre meno spazio per la formazione di una coscienza culturale, politica o esistenziale. Il tentativo di “sensibilizzare” in questo senso resta però un dovere da parte di chi crede ancora nella ricchezza di un cambiamento. Abbiamo dedicato il nostro lavoro ai “nativi digitali”, ma quanti tra questi lo comprenderanno nel senso più ampio del termine, facendolo proprio? La speranza ricade su quegli studenti che, quando morì Monicelli, scesero in piazza contro la riforma Gelmini dell’Università sbandierando lo striscione “ciao Mario, la faremo sta rivoluzione!”. Ma non so davvero quanti siano, oggi, ad avere una lucida consapevolezza dei propri diritti. Il primo passo dovrebbe essere quello di contribuire allo sviluppo di una coscienza storica, che è la base di tutto. Pochi giorni fa, in occasione della commemorazione della strage di Piazza Fontana, sono stati intervistati dei ragazzi per le strade e quasi nessuno sapeva cosa fosse accaduto il 12 dicembre 1969, nessuno sapeva cosa fosse la “strategia della tensione”, nessuno ricordava il nome di Pinelli. L’ho trovato molto sconcertante. Mi piacerebbe pensare, per usare la metafora degli scacchi che ritroviamo sulla nostra locandina, che si potesse ricominciare a lottare contro un nemico che non ha più rispetto per la dignità umana con l’arte, il cinema, la letteratura. In un gioco che oltrepassi ogni schema, sfugga a ogni regola, spiazzi l’avversario con la fantasia e il dubbio, perché solo attraverso il dubbio non si smette mai di cercare la verità e si gettano i semi della conoscenza, fertilizzando un futuro migliore e non utopico.

Foto tratta dal sito www.cinecittalucemagazine.it