Il 31 maggio 2000 si spegne a Manhattan Tito Puente, uno dei profeti del mambo e protagonista del jazz orchestrale. Ha settantasette anni e fino quasi all’ultimo ha continuato a lavorare.
Sono l’imperatore
Non era un tipo malleabile. Andava su tutte le furie quando lo chiamavano il “Re del Mambo”. Non amava confusioni. Lui era “L’imperatore”, perché il Re era cubano e si chiamava Perez Prado. Figlio di emigrati portoricani, Tito Puente, all’anagrafe Ernesto Anthony Puente Jr., nasce il 20 aprile 1923 a New York in quel Barrio Latino di East Harlem, che negli anni Trenta è il crocevia di quasi tutti i fermenti sociali e culturali della gioventù latino-americana della città: «Rivendico il fatto di essere nato nel Barrio di New York dove si passava indifferentemente dal jazz alla musica latina. Per questo amo entrambi i generi senza distinzioni». Tutto il mondo oggi gli riconosce il merito di aver imposto le sue variazioni ritmiche al jazz orchestrale, anche se per molto tempo, nonostante le prestigiose collaborazioni con Dizzy Gillespie e tanti altri, l’impegno su questo fronte sembrava un po’ la valvola di sfogo di un artista in declino. È avvenuto soprattutto nei primi anni Sessanta quando il mambo sembrava essere diventato un cimelio da museo, roba buona solo le nostalgie dei poveri latino-americani. In realtà Tito Puente con Celia Cruz, Xavier Cugat e Perez Prado è l’espressione di una musicalità latina che trova la sua sublimazione in un genere la cui componente africana è rivendicata già nel nome, Mambo, lo stesso del dio della guerra dei popoli caraibici.
La lezione di Arsenio Rodriguez
Negli anni Quaranta Tito Puente assorbe la lezione del compositore e direttore d’orchestra cubano Arsenio Rodríguez, il primo che codifica le strutture ritmiche e armoniche del mambo e ne detta le regole sovrapponendo i ritmi sincopati del jazz orchestrale nordamericano e quelli afro-cubani della sua terra d’origine. In questa struttura vive, irrisolto e irrisolvibile, il fascino della contraddizione di una musica eseguita in tempo di 4/4, ma con una suddivisione talmente irregolare da essere ballata come se fosse un tempo di 3/4, ovvero con due movimenti semplici seguiti da un terzo molto marcato. La sua carica liberatoria di ritmo e sensualità non resta a lungo confinata nei quartieri dove si parla la lingua degli antichi conquistadores, ma, a partire dagli anni Cinquanta, si diffonde a macchia d’olio fino contagiare tutto il mondo. In quel periodo Tito Puente inizia a dividersi in due. Da un lato percorre fino in fondo la strada della celebrità commerciale con un’orchestra da sala che compete con quelle dei suoi amici e rivali Machito, Xavier Cugat o Perez Prado e dall’altro non perde occasione di ritrovarsi al Palladium di New York per suonare jazz fino a mattina con gruppi improvvisati. Gli sono compagni d’avventura, di volta in volta, personaggi come Dizzy Gillespie, Charlie Parker, Woody Herman o Buddy Morrow, oltre a numerosissimi musicisti cubani e portoricani. E quando il mambo sembra declinare non si arrende. Si ritorna a parlare di lui quando Carlos Santana porta al successo due suoi brani, Oye como va e Para los rumberos, realizzando una nuova sintesi tra il rock e le musiche del Caribe.