Home C'era una volta Kate Bush, la donna del mistero

Kate Bush, la donna del mistero

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Il 30 luglio 1958 nasce a Bexleyheat, nel Kent, Catherine Bush, detta Kate, una delle voci più interessanti della scena pop internazionale tra la fine degli anni Settanta e i primi Ottanta.

Il primo contratto grazie a David Gilmour

Kate Bush viene descritta dalle biografie ufficiali come una sorta di bambina prodigio che passa il suo tempo tra il pianoforte e i libri. In realtà, come dice lei con ironia, in quegli anni ascolta anche i dischi dei T. Rex di Marc Bolan, ma «non si può dire, altrimenti crolla il mito». Ha solo quindici anni quando invia una cassetta con alcune sue canzoni a David Gilmour, il chitarrista dei Pink Floyd che la fa ascoltare ai talent scout della sua casa discografica. Nonostante la giovane età ottiene il suo primo contratto discografico che la costringe a frequentare lezioni di piano e di canto, oltre che i corsi di danza di Lindsay Kemp. Nel 1977 tutto è pronto per il suo debutto. La ragazza, non sopporta però di sentirsi un pollo d’allevamento e rifiuta le imposizioni. «Sono una donna, non uno stupido disco. Canto solo ciò che mi convince!» Più volte il rapporto tra lei e i discografici arriva al limite della rottura e il suo primo disco vede la luce solo nel gennaio del 1978. Valeva la pena di aspettare tanto!

L’irrequietezza è la sua cifra artistica

In piena epoca punk la sua interpretazione della romantica Wuthering heights, conquista il vertice della classifica. Il ruolo della popstar però non fa per lei. Dopo un faticoso tour nel 1979 decide di non fare più concerti alimentando la leggenda della “donna del mistero” dal carattere chiuso e scontroso. Il rapporto con il pubblico è delegato a una serie di splendidi video-clip di cui spesso firma sceneggiatura e regia. Straordinari esempi della sua genialità creativa sono Babooshka nel 1980 e di Running up that hill nel 1985, che vede la partecipazione dell’attore Donald Sutherland. Nel tentativo di soddisfare una perenne irrequietezza artistica e l’ansia di percorrere strade nuove la sua voce si comporta come se fosse uno strumento sonoro e nelle atmosfere ritmate e aggressive dei brani il timbro non esita a farsi cupo per dare corpo a foschi e ossessivi deliri. Sono parti dell’evoluzione di un genere molto personale che verrà definito “lirismo rock” da critici senza fantasia. Non si fa catturare dai ritmi del successo. Pubblica dischi quando se la sente e canta dal vivo soltanto quando ha voglia. In genere raramente…

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Gianni Lucini
Scrivere è il mio principale mestiere, comunicare una specializzazione acquisita sul campo. Oltre che per comunicare scrivo anche per il teatro (tanto), il cinema e la TV. È difficile raccontare un'esperienza lunga una vita. Negli anni Settanta ho vissuto la mia prima solida esperienza giornalistica nel settimanale torinese "Nuovasocietà" e alla fine di quel decennio mi sono fatto le ossa nella difficile arte di addetto stampa in un campo complesso come quello degli eventi speciali e dei tour musicali. Ho collaborato con un'infinità di riviste, alcune le ho anche dirette e altre le dirigo ancora. Ho organizzato Uffici Stampa per eventi, manifestazioni e campagne. Ho formato decine di persone oggi impegnate con successo nel settore del giornalismo e della comunicazione. Ho scritto e sceneggiato spot e videogiochi. Come responsabile di campagne di immagine e di comunicazione ho operato anche al di fuori dei confini nazionali arrivando fino in Asia e in America Latina. Dal 1999 al 2007 mi sono occupato di storia e critica musicale sul quotidiano "Liberazione".

1 COMMENT

  1. Dunque Kate Bush “non sopporta però di sentirsi un pollo d’allevamento e rifiuta le imposizioni”.
    Nessuno sopporta di “sentirsi un pollo d’allevamento”, soprattutto i polli.
    Quando ci si lamenta del fatto che certi esseri umani siano trattati come animali, si aziona il meccanismo della gerarchia delle oppressioni, per cui una crudeltà risulta più o meno accettabile di altre: costruire questa gerarchia crea le condizioni affinché ogni oppressione sia possibile. Usare l’oppressione esercitata sugli animali come termine di paragone per denunciare il trattamento degli esseri umani, equivale a legittimare questa oppressione: è come dire che non è permesso trattare gli esseri umani in un certo modo ma gli animali sì. Bisogna bandire queste metafore speciste dal linguaggio perché non sono d’aiuto né agli esseri umani né a quelli non umani.

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