“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”. (Italo Calvino, Le città invisibili, 1972).
La brillante penna di Italo Calvino ci porta a riflettere su eventi storici che sono rimasti impressi indelebilmente nella memoria dei popoli, di episodi che hanno cambiato la vita di decine di migliaia di persone, che hanno radicalmente inciso nei luoghi dove sono avvenuti e che hanno alterato la vita della flora e della fauna. Uno di questi avvenimenti è senza dubbio l’esplosione del reattore 4 della centrale nucleare di Chernobyl, avvenuta nelle prime ore della mattinata del 26 aprile 1986.
Chernobyl e Pripyat, venticinque anni dopo
Squillace e il suo viaggio a Chernobyl e Pripyat
Situata a circa 130 chilometri a nord di Kiev, in Ucraina, e a circa 20 chilometri a sud del confine con la Bielorussia, la centrale nucleare è situata vicino all’omonima cittadina che, nel 1986, ospitava più o meno 12.000 abitanti e al centro abitato di Pripyat dove vivevano circa 60.000 persone. Oggi sono due città fantasma: palazzi abbandonati, ponti dissestati e strade deserte. Dopo lo scoppio del reattore 4, la vita dei propri abitanti è stata interrotta di colpo nel mezzo delle loro attività quotidiane: oggetti casalinghi abbandonati all’improvviso, libri scolastici e album di famiglia ancora aperti e coperte e siringhe d’ospedale ancora nella posizione in cui sono state frettolosamente lasciate. Venticinque anni dopo il disastro nucleare di Chernobyl, il freelance italiano Massimiliano Squillace è tornato sui luoghi della tragedia per immortalare, nei suoi scatti, la desolazione odierna di queste zone abbandonate. Per offrire al pubblico le sue impressioni e le sue fotografie, Squillace ha raccolto le sue istantanee in un libro, Chernobyl. Scatti dall’Inferno (Infinito edizioni, 2011).
Chernobyl e Pripyat, scatti dall’Inferno
Nel volume, Squillace ci descrive il suo tour partendo da Kiev fino ad arrivare alla centrale nucleare di Chernobyl. Sono fotografie decisamente forti e di grande impatto, specie se si osserva l’enorme sarcofago di cemento che ricopre il reattore 4, una struttura di protezione costruita per contenere gli effetti delle radiazioni. Ma non c’è dubbio che gli scatti migliori di Squillace sono quelli riservati alla città fantasma di Pripyat. Al centro abitato nelle vicinanze della centrale, è stato sempre dedicato poco spazio per dire cos’è successo alla popolazione, per narrare la quotidianità degli abitanti di Pripyat prima del disastro e per raccontare come sono radicalmente mutate le loro vite. E per capire come altrettanto radicalmente una giovane e felice cittadina si sia trasformata di colpo in una città fantasma, disabitata e abbandonata a sé stessa. Pripyat ci racconta così, in maniera cruda, gli ultimi istanti della sua esistenza prima che i suoi abitanti fossero evacuati.
Molto efficacemente, Squillace definisce Pripyat una “moderna Pompei”: ogni cosa è rimasta ferma a quei giorni del 1986, come se tutto fosse rimasto cristallizzato: le stoviglie nei lavelli, i letti non ancora rifatti, gli abiti e vestiti negli armadi, i frigoriferi e gli scaldabagni; e ancora i giocattoli dei bambini, libri e cartoline, materiale propagandistico e cimeli militari. E poi alcune tracce palpabili del disastro nucleare, ossia i veicoli militari sovietici impiegati per prestare i primi soccorsi alla popolazione e poi abbandonati per via dell’alto tasso di contaminazione radioattiva. Pripyat era stata costruita agli inizi degli anni ’70 per ospitare i tecnici e i lavoratori della vicina centrale nucleare di Chernobyl. Una città giovane, che tale è rimasta: “Venticinque anni fa Pripyat era una città vibrante, piena di vita, una località modello per la moderna Unione Sovietica, appositamente costruita a pochi chilometri dal reattore di Chernobyl. L’inizio della sua costruzione era stato un evento celebrato sulla prima pagina della Pravda. Nuove case, nuove strade, troppo nuovo, non ha avuto il tempo di incarnare in sé il tempo”. A Pripyat si poteva godere di un tenore di vita decisamente più alto rispetto agli altri territori che componevano l’allora Unione Sovietica: c’era un folto verde pubblico, viali ampi e spaziosi, ospedali e scuole funzionanti, palestre e piscine moderne, caffè e ristoranti, locali notturni pieni di giovani.
Cosa accadde quel fatidico 26 aprile 1986?
Era una giornata tranquilla, ordinaria: “Le madri con i loro piccoli nei passeggini, i bambini nella grande piazza centrale, i giovani a passeggio in quell’aprile insolitamente caldo; sedici coppie si erano persino sposate e avevano registrato il loro matrimonio presso l’ufficio comunale”. Tuttavia, non appena si diffuse la notizia dell’esplosione, iniziarono i preparativi per l’evacuazione della popolazione civile: “Nel corso di sole quattro ore, quella domenica di aprile, a partire dalle due del pomeriggio, tutti i quasi sessantamila abitanti di Pripyat furono evacuati: mille e cento autobus pieni di famiglie si misero in coda creando un serpentone che si estendeva per 15 chilometri. Per evitare il panico fu detto di prendere solo pochi beni essenziali. Fu data ai cittadini la garanzia di un ritorno a casa entro tre giorni”. In realtà, nessuno tornò mai più a Pripyat. Da allora i suoi resti simboleggiano perfettamente l’entità della sciagura che si abbatté sulla cittadina ucraina. Ed ecco che l’obiettivo di Squillace si focalizza sugli aspetti spettrali dell’odierna ghost-city: “I resti scheletrici di Pripyat sono blocchi di appartamenti vuoti e piazza spazzate dal vento. La natura ha preso il controllo; alberi sono nati ovunque, anche nei piani alti dei palazzi, con le radici ben salde nelle fessure dei pavimenti. Dappertutto un silenzio inquietante che riecheggia con l’abbandono”.
Davanti al freelance italiano appare in tutta la sua imponenza l’Hotel Polissya, il centro alberghiero più importante di Pripyat. Situato nella Piazza Lenin, era destinato all’alloggiamento di delegazioni e ospiti in visita alla centrale nucleare. Qui Squillace ci regala un momento particolarmente emozionante: “Cerco di raggiungere la cima del ‘Polissya’. La salita è particolarmente insidiosa a causa delle scale pericolanti, ma la vista dal balcone all’ottavo piano è semplicemente mozzafiato. È da qui che si può avere un’idea delle dimensioni del luogo, oltre che della portata della distruzione. La centrale nucleare si profila sullo sfondo dei condomini, a un paio di chilometri di distanza, come una maledizione sulla terra”. A pochi passi dall’Hotel Polissya, sorge ancora intatta una scuola elementare e la macchina fotografica di Squillace coglie due particolari significativi dopo aver ascoltato i racconti della sua guida ucraina: “Solo una settimana prima dell’incidente, la scuola aveva tenuto un’esercitazione di emergenza durante la quale i bambini avevano indossato maschere ed erano scesi in rifugi antiaerei. Non erano stato detto loro di temere uno dei sei reattori di Chernobyl, ma piuttosto la minaccia di un attacco nucleare da parte dell’Occidente. Ovunque nella scuola maschere antigas di diverse dimensioni sono appoggiate sui banchi”.
Il racconto di Squillace a Pripyat
E nel narrare le vicende della scuola elementare di Pripyat, si può scorgere una punta di amarezza nel racconto di Squillace: “In vent’anni i saccheggiatori hanno portato via tutto da Pripyat, dalle rubinetterie ai mobili. Ma non i libri dalla scuola. Per i ladri i libri non hanno valore”. L’altro simbolo del totale abbandono di Pripyat è il parco giochi e la ruota panoramica: “C’era anche un grande parco divertimenti a Pripyat. È rimasto lì, attaccato dalla ruggine, con la sua plastica colorata che resiste alle intemperie e alla pioggia. Gli autoscontri sono eternamente in fase di ‘stop’ e un’enorme ruota panoramica alta quaranta metri svetta al di sopra delle erbacce. Oggi, domani e poi ancora. Il ‘Luna Park’ di Pripyat avrebbe dovuto essere inaugurato il Primo Maggio 1986. Il disastro di Chernobyl è avvenuto il 26 aprile. Nessuno è mai riuscito a cavalcare la ruota. Nessuno ha mai urlato sugli autoscontri”. A tutt’oggi, questa è l’area con il maggior tasso di radiazioni. Il 26 aprile 1986 il vento portò proprio sul parco giochi le prime particelle radioattive; la ruota panoramica, in modo particolare, è la struttura maggiormente contaminata. Proprio dietro la struttura ricreativa esisteva una rigogliosa foresta, ribattezzata successivamente “la foresta rossa” per via del cambiamento cromatico degli alberi, una folta macchia verde che scomparve in pochi giorni a causa delle eccessive radiazioni. Squillace immortala così uno scenario agghiacciante, regalandoci in presa diretta la testimonianza più autentica di quelli che dovevano essere stati gli ultimi istanti della vita in città dei suoi abitanti; quasi un fermo immagine che rimarrebbe eterno se la natura nel frattempo non avesse ripreso il sopravvento: “In mezzo alla distruzione molte specie di animali selvatici e uccelli che non erano mai state viste precedentemente sono ora riapparse. La guida mi racconta che non è raro vedere l’alce, il capriolo, il cinghiale russo, la volpe, la lince, la lontra e la lepre. Fra i grandi predatori il lupo è ritornato ben presente nella zona di esclusione e sono state persino viste impronte di orso. Anche la biodiversità della flora è impressionante. La ragione di questa conquista della natura è legata all’assenza di ogni attività umana con tutte le sue implicazioni. Niente industrializzazione, niente inquinamento, niente agricoltura, niente pesticidi”. Il tour di Squillace volge al termine: “Su Pripyat scende il crepuscolo. Tengo vigili le palpebre e chiudo gli occhi. E di colpo nelle finestre delle case vuote la luce è accesa, persone passeggiano per le strade e la ruota gira”. Forse la vita può tornare a riprendere. Anche a Pripyat, la città fantasma.