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Jackie: storia di una first lady

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Jackie

Jackie, il biopic di Pablo Larraín dedicato alla first lady Jacqueline Kennedy, è uno di quei film in grado di generare attesa: incentrato su una donna che ha fatto epoca, ispirato a vicende che hanno segnato la Storia, interpretato da un’attrice da cui ci si aspetta una performance da ricordare. La sensazione che si ha dopo averlo visto è che questa attesa non sia stata completamente appagata.

Natalie Portman è senza dubbio convincente nel restituire tanto la delicata fermezza aristocratica della first lady, quanto la sofferenza di Jackie, in una costante alternanza tra la determinazione necessaria nella sfera pubblica e la debolezza riservata a quella privata. La scena da ricordare, in questo senso, è quella in cui Jackie fa rientro alla Casa Bianca con ancora indosso il tailleur macchiato del sangue di Kennedy, aggirandosi tra i saloni vuoti con passo lento, disperata eppure consapevole, e degna. Sono momenti in cui film di questo genere mostrano il loro senso, perché indipendentemente dalla veridicità storica degli eventi mostrati, vanno a colmare quei vuoti “umani” che nessun documentario potrebbe raccontare.

Tuttavia, a dispetto del titolo, che promette una prospettiva più intima sul personaggio, il film insiste nel raccontarne soprattutto le scelte pubbliche: la caparbietà nel non nascondersi, anzi mostrarsi al mondo a ridosso dell’attentato, ma anche la volontà quasi ossessiva di mettere in piedi una commemorazione funebre monumentale, ispirata a quella di Abraham Lincoln, per incidere nella memoria degli americani la perdita di un presidente al servizio di alti ideali. Scelte anticonvenzionali, che disegnano bene il profilo di una donna di grande intelligenza mediatica, consapevole di dover comparire per non essere tagliata fuori dalla Storia, con una intenzione a metà tra il tributo al marito e il risarcimento personale.

Jackie

 

 

 

 

 

 

 

Riguardo alla componente più umana, invece, il tentativo di esplorare l’animo di Jackie finisce per essere un po’ frustrato, sia in virtù della scelta di raccontare solo gli eventi strettamente successivi all’attentato – mostrato e reiterato in tutta la sua crudezza -, sia a causa della narrazione “a macchia”, in cui si perdono le connessioni tra le cose, sia per la mancanza di incisività dei dialoghi tra Jackie e le figure dei suoi confessori, il giornalista e il prete, che si fa carico di un pallido tentativo di proiettare la sua vicenda su uno sfondo universale, raccontandola anche come madre.