Home Green Screen La pazza gioia delle donne di Virzì, come Thelma & Louise

La pazza gioia delle donne di Virzì, come Thelma & Louise

SHARE
la pazza gioia

È notizia di qualche giorno fa quella della reunion, in occasione del Festival di Cannes, tra Susan Sarandon e Geena Davis a venticinque anni di distanza dal film di Ridley Scott Thelma&Louise, celebrato come pietra miliare del discorso cinematografico sull’emancipazione femminile.

Ironia della sorte, anche Paolo Virzì, che ha presentato La pazza gioia fuori concorso al medesimo Festival, ha voluto rendere omaggio al film di Scott in una sequenza del suo.

Le due protagoniste, Micaela Ramazzotti e Valeria Bruni Tedeschi, si fingono le figuranti speciali di un film d’epoca che si sta girando, inforcano foulard e occhialoni da sole e si mettono alla guida di una decappottabile, solo che quando viene battuto il ciak, anziché limitarsi a completare l’azione, le due sfrecciano via lasciandosi il set alle spalle e fuggono in macchina. È uno di quei casi in cui il parallelo tra il cinema e il sogno diventa immediatamente evidente: se è vero che Thelma e Louise hanno rappresentato un modello di libertà per le donne, è altrettanto vero che Beatrice e Donatella non possono fare altro che sognare quella libertà, indossare i loro panni per qualche ora, goderne fintanto che sembra reale, darsi alla pazza gioia.

Il titolo è volutamente ambiguo, così come dolceamaro è tutto il film. Cos’è la pazza gioia? Cosa significa essere felici? È evidente che cercare la risposta significa relativizzare la domanda. Noi che guardiamo non penseremo che le due protagoniste sono donne felici, anzi. Eppure per Beatrice la pazza gioia sta tutta nei beni materiali, per Donatella la pazza gioia sta nel ritrovare suo figlio. È questo che le tiene in vita, che le fa muovere: non diversamente da ciascuno di noi, ma con intensità ‘clinica’ – ancora una volta la riflessione sulla follia riduce la distanza tra chi si sente normale e chi non lo è – queste due donne guardano alla realtà applicandovi un filtro correttivo, qualcosa che possa alleviare la loro infelicità restituendo l’immagine di cui hanno bisogno.

Beatrice, personaggio irresistibile che ci fa scoprire il registro brillante della Bruni Tedeschi, è una sorta di Madame Bovary in versione icona gay: bella, accessoriata, naif, riesce a conquistarsi la nostra simpatia pur essendo una irriducibile classista. Vive proiettata in un passato berlusconiano, fatto di opulenza e amori adolescenziali, e non si rassegna alla povertà dell’istituto psichiatrico che la ospita, dando ordini a tutti come fosse la padrona. È capace di trasgressioni almodovariane, come quando ‘celebra la messa’, dispensando in una sorta di allegro baccanale pillole extra di psicofarmaci alle altre pazienti dell’istituto.

Donatella, ragazza madre allo sbando, privata del figlio dai servizi sociali, ha mitizzato la figura del padre, musicista fallito ed egoista, convincendosi che lui sia l’unico ad averla mai amata. L’unico momento di gioia per Donatella è stata la nascita del figlio, che ha cercato di sottrarre all’infelicità della vita senza di lei, immergendosi in quello che, nella sua testa, era una sorta di liquido amniotico perenne.

Beatrice e Donatella imparano a volersi bene perché, nel corso del loro breve viaggio, sono di sostegno l’una all’altra: quando una viene meno è l’altra a prendere le redini perché il viaggio possa continuare. Le due donne oscillano costantemente tra follia e normalità: Beatrice si rivela una figura chiave nella mediazione con la famiglia adottiva del figlio di Donatella, riuscendo a far comprendere le ragioni della madre naturale, Donatella interviene ogni volta che Beatrice supera il limite, riportandola con i piedi per terra. L’incontro tra i loro mondi, così diametralmente opposti, è la genesi di un nucleo familiare, un incastro che funziona, qualcosa che le normalizza e le rende più forti, e più felici, insieme che da sole.