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L’Avana (Cuba), una città raccontata dalle sue rovine

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L'Avana
Foto di Ahmel Echevarria

A proposito del documentario Hotel Nueva Isla (2014), dei registi Irene Gutiérrez Torres (Spagna) e Javier Labrador Deulofeu (Cuba), Ahmel Echevarria parla di austerità e povertà, di marginalità, di alternative ai limiti della legge per vivere o sopravvivere, di edifici per la maggior parte distrutti dalla furia degli elementi che raccontano la storia de L’Avana.

traduzione di Alessandro Oricchio

L’Avana (Cuba), una città raccontata dalle sue rovine

Di notte, al Vedado, in aprile, o fine marzo, al campo di squash dell’Ambasciata della Norvegia a Cuba.

Alle otto e mezza, quando il sole del tropico è ormai un (forte) ricordo, due volte al mese proiettano corto e lungometraggi. Sia cubani che stranieri. Di finzione o documentari. In genere, nella fase di produzione e post produzione i film scelti hanno potuto contare sul finanziamento elargito dal Fondo Norvegese per il Cinema.

Non ricordo il giorno esatto della proiezione del documentario Hotel Nueva Isla (2014) dei registi Irene Gutiérrez Torres (Spagna) e Javier Labrador Deulofeu (Cuba). Mi interessava vederlo, avevo letto il commento dello scrittore cubano Pedro Juan Gutiérrez. Parlava molto bene del film. Nelle sue parole ho ritrovato delle similitudini tra il documentario e una parte della sua opera letteraria, in particolar modo quella che si sviluppa e si concretizza nel Ciclo del Centro Habana, formato dalle opere Trilogia sporca dell’Avana, il Re dell’Avana e Anima Tropicale, per citare tre romanzi.

Parlo di austerità e povertà, di diversi tipi di marginalità e di alto livello, di alternative ai limiti della legge per vivere o sopravvivere, di edifici per la maggior parte distrutti dalla furia degli elementi, edifici e casolari in una situazione statica miracolosa alcuni, altri con non pochi appartamenti chiusi per crolli o pericolo di collasso.

 

Tempo lentissimo quello di Hotel Nueva Isla. Meno caraibico e più nordico se parliamo di ritmo. Più contenuti che discorsi, se ci riferiamo alla incontinenza verbale che per disgrazia comune domina nel cinema cubano. Riassumendo: Hotel Nueva Isla è il trascorrere della vita di un uomo chiamato Jorge, e di quanto rimane di un edificio che un tempo era un Hotel di lusso, il Nueva Isla; la vita di un uomo e il suo animale domestico in compagnia di alcuni vicini, tutti inquilini illegali di un edificio chiuso dalle autorità a causa del suo stato costruttivo.
Si tratta di una vita tra le rovine, non rovinata. Per lo meno questo mostra l’atteggiamento di Jorge. Ama, desidera, cerca anche oggetti di valore che crede siano stati nascosti da vecchi occupanti e ribalta pavimenti, tetti, pareti. A differenza dell’edificio dove ha deciso di vivere, l’okkupante Jorge sembra un uomo distrutto dalle circostanze ma non sconfitto.
Ho visto all’Avana non pochi tipi come lui, totalmente sani di mente. E ho contato un numero indefinito di edifici simili per stato al Nueva Isla. Non è una rara condizione questo equilibrio precario. Fotocamera in mano e senza aver stabilito prima un itinerario sono andato a ritagliarli dalla realtà con una vecchia Sony digitale, compatta, antidiluviana, ma con una lente Carl Zeiss.
Senza uno schermo è impossibile prendere le distanze. Obbligatoriamente, chi scatta una foto formerà parte dello scenario in questione o di un possibile conflitto, se risulta poco amichevole la reazione del fotografato; anche lo stesso edificio può giocare un brutto scherzo. Sport di alto rischio non è, perché questo tipo di foto situa il fotografo in un contesto di malessere, di resistenza, di conformità.

È uno spazio sociale multiplo, dove i vettori e le linee di forza della cultura e della politica si intrecciano, nel quale si può verificare come vengono distribuiti il potere e le cariche reali e simboliche.

L’Avana, la città meravigliosa

Quello che faccio io tra le rovine non è un semplice safari. Succede che nella capitale di Cuba il passante trovi un’architettura sorprendente. Una buona parte dell’ammasso architettonico è stato costruito prima del gennaio 1959, ovvero, prima del trionfo dell’uragano chiamato Revolución. Il modello dell’Avana, aperto al pubblico a Miramar, quartiere residenziale del municipio Playa, conferma quello che abbiamo detto. Per colori si rappresentano i periodi durante i quali venne eseguita l’edificazione di quello che oggi è l’Avana, la città meravigliosa.


Della sua architettura mi interessa oltremodo una sorta di paradosso: una presenza che è assenza. Il paradosso può essere inteso in maniera inversa e ha un nome semplice: rovine. Il mio interesse per Hotel Nueva Isla inizia proprio lì. Volevo mettere a confronto gli sguardi, le conclusioni.
Il passante interessato alla cultura cubana potrà sollazzarsi a suo piacimento come se avesse pagato un biglietto per Teotihuacán dove convivono diversi stili architettonici e il mare sbatte contro un lungo muro costruito sopra alla scogliera. Sì, una sorta di cittadella già al tramonto nonostante l’update architettonico.
Una rovina è all’unisono assenza e presenza. Secondo quello che dice la logica, un insieme di rottami senza valore patrimoniale non ha alcuna funzione. Tuttavia, finché coesiste con gli altri edifici rappresenta uno spazio. Proprio in questo limbo inizia ad assumere un significato. Perché tra le rovine è possibile la vita: quella degli arbusti e dell’erba che crescono sulle pareti, sui tetti; quella dei roditori e degli insetti nelle cavità e nelle tubature; quella dei cani, degli uccelli, dei gatti, dei ragni; anche degli esseri umani senza le risorse per permettersi la riparazione o la costruzione di una nuova casa, si vedono, o si sa della loro esistenza, quando si viaggia su un autobus su un viale dell’Avana, o quando si cammina per le strade, i segni sono inequivocabili: vestiti stesi al sole, vasi con piante, scarpe che prendono aria. Nell’antico teatro Campoamor, su un lato del Capitolio Nazionale, per non poco tempo tra le sue rovine c’è stata vita umana, come nell’Hotel Nueva Isla, o nel Regina, solo per nominare alcuni luoghi che in un passato potevano ostentare un nome altolocato.

il paesaggio urbano de L’Avana

Collocarsi in maniera attiva davanti alle rovine de L’Avana è una possibilità. Non si tratta di sollazzarsi, ma di confrontarla dalle prospettive artistiche e architettoniche, collegando ciò che si è osservato con il contesto sociale, economico, politico, così come ha fatto il saggista, critico e narratore cubano Antonio José Ponte. Lui è un rovinologo. Lo ha dichiarato nel documentario El arte nuevo de hacer ruinas (2006) di Florian Borchmeyer e Matthias Hentscheler. In un azzardato atto di confessione, rendo pubblico il mio interesse nel ricordare le note più alte, o i dettagli più rilevanti, del concerto architettonico più o meno barocco, ma definitivamente eclettico, a seconda del quartiere in questione.
Sotto gli effetti dell’acqua e del sole, della salsedine e del vento, del fuoco, delle modifiche effettuate da qualche inquilino temerario senza la consulenza di uno specialista, con la totale assenza di manutenzione e folli piani di costruzione dove l’architettura diviene un elemento di minore importanza, il paesaggio urbano dell’Avana si trasforma. Questo panorama non è simile a quello della città devastata da un conflitto armato. La sua bellezza è un’altra.

Dopo una guerra il corpo deve fare di tutto per uscire dalla desolazione e dalla austerità per mostrarsi nella sua totale intensità (intellettuale, politica, sessuale, economica, sociale). In una città dove le rovine sembrano essere (e sono) parte della dinamica sociale e politica, anche di governo, per campeggiare la desolazione e l’austerità il corpo deve impegnarsi a fondo dalla sua totale intensità (intellettuale, politica, sessuale, economica, sociale).
Bisogna pagarsi un biglietto per l’Avana avendo tra i piani il godimento delle cariatidi mutilate, le gargolle guerce, statue senza testa o con arti in meno. Anche la boscaglia che colonizza le pareti è uno spettacolo particolare, e nemmeno vanno sprecate le facciate Art Deco y Arte Nouveau dove le fessure fanno zig zag tra i balconi, le finestre, le balaustre, sui suoi tetti rafforzati. Non si dovrebbero ignorare gli edifici neoclassici venuti meno, un tempo costruiti da maestri dei cantieri, abili muratori, carpentieri ebanisti che non sembrano più disponibili in questa capitale, o recinzioni, ringhiere, parapetti, corrimano costruiti e ricamati come ormai non è più possibile.

Ci sarà tempo di fondare un Buena Vista Building Club per edificare un palazzo nel pieno del XXI secolo con reali linee curve e rette, angoli insoliti, lavori in pietra e ferro, aree verdi e spazi pubblici inclusi simili a quelli edificati negli anni 60 del secolo scorso, come la Scuola d’Arte Cubanacán o il reparto Camilo Cienfuegos nell’Avana dell’Est? Ancora rimane una riserva di tempo, la Oficina del Historiador della città ha creato una scuola di mestieri. Alcuni vecchi edifici di grande importanza sono stati riscattati, basta camminare per la zona coloniale. Ma l’Avana è molto di più del solo centro storico.
Ah, dimenticavo l’influenza musulmana, c’è anche all’Avana, per dirlo rapidamente e male basta ricercarla negli edifici trasformati mille e una volta in colonne, archi, finestre e balconi. O queste vecchie costruzioni coloniali impossibili ormai da restaurare. Anche molti edifici che appartengono alla corrente modernista iniziano a far vedere i primi segni del tramonto.

Il famoso architetto cubano, già scomparso, Mario Coyula (1935-2014), oltre ad essere stato professore, critico e scrittore, mise il dito nella piaga quando in una intervista disse “da un inizio (nei primi anni della Revolución) ci fu un approccio sbagliato, quello di concentrarsi sulla costruzione di case piuttosto che sul mantenimento di quelle già esistenti. Questa è stata una caratteristica che si è mantenuta per 50 anni, dedicarsi a costruire e non a conservare quello che era già esistente”.
Quanto potrebbe essere dannosa per la città una politica che non contempli il mantenimento di ciò che è stato costruito? La risposta sembra ovvia. Ma se il piano avesse come obiettivo l’arte di edificare rovine il tema non sarebbe così folle.
Fino ad ora sembra conveniente questo tipo di paesaggio cittadino eroso e in via di erosione. Perché in questo punto gli edifici raggiungono la condizione ideale per essere inclusi in un tour dove l’interessato abbia l’opportunità di interagire anche con le arti cubane, la società, la sua politica. Intorno alle rovine la vita è in fiore. Lì dove le crepe si muovono come serpenti, le pareti sono aperte e dipinte con graffiti patriottici, si apre un ristorante di alto livello incluso nei consigli di Trip Advisor: La Guarida. Uno scenario simile è il paesaggio di fondo del gruppo Buena Vista Social Club, il documentario di Win Wenders è una testimonianza fedele. Anche il cinema si prende la sua parte: il bellissimo documentario Suite Habana (2003) di Fernando Pérez è un buon esempio tra gli altri. Pertanto, sarà un tour per niente trascurabile.

Tabacco, rum, musica tradizionale, cibo creolo e mulatte, murales politici dove la Guerra Fredda non è il passato, oltre al transito delle vecchie auto americane guarniscono l’eclettismo architettonico attenuato dalla caratteristica delle rovine: la sua assenza/presenza.

Centro Habana, La Habana vieja, anche il Cerro, Guanabacoa, Regla (quartieri de L’Avana, ndr)

Un itinerario impossibile da coprire in un paio di giorni, nei 15 municipi della capitale attendono molte rovine che meritano di essere incluse nel tour La storia di una città raccontata dalle sue rovine: chiese, scuole, cinema, fabbriche, parchi, teatri, licei, stadi, hotel antichi, palazzetti, case, edifici multifamiliari, ma anche strade e marciapiedi.
Qualche consiglio per il tour? Molta acqua in bottiglia, protezione solare con un alto filtro protettivo, maglia a maniche lunghe, cappello. La fotocamera può non essere inclusa, ma non dovrete mai dimenticare la distanza e il distacco generato quando vediamo la Realtà attraverso la macchina fotografica, perché si tratta di pensare al viaggio, di viverlo, e di non capire, spostando in un album fotografico, l’esperienza dell’attraversata.

Traduzione di ALESSANDRO ORICCHIO

La historia de una ciudad contada por sus ruinas

La noche, El Vedado, abril, o finales de marzo, en la cancha de frontenis de la Real Embajada de Noruega en Cuba. A las 8:30 p.m., cuando el sol del Trópico es tan solo un (fuerte) recuerdo, dos veces al mes exhiben cortos y largometrajes. Cubanos, extranjeros. De ficción o documentales. Por lo general, en la fase de producción o postproducción los filmes elegidos han contado con el financiamiento otorgado por el Fondo Noruego para el Cine.
No recuerdo el día exacto de la proyección del documental Hotel Nueva Isla (2014) de los realizadores Irene Gutiérrez Torres (España) y Javier Labrador Deulofeu (Cuba). Me interesaba verlo, había leído un comentario del escritor cubano Pedro Juan Gutiérrez acerca del filme. Lo elogiaba. En sus palabras encontraba yo similitudes entre el documental y una zona de su obra literaria, específicamente la que se desencadena y estalla en su “Ciclo de Centro Habana” —conformado por las obras Trilogía sucia de La Habana, El Rey de La Habana y Animal Tropical por solo citar tres novelas—. Hablo de austeridad y pobreza, de variada marginalidad en alta gama, de alternativas al margen de la ley para vivir o sobrevivir, de inmuebles en su mayoría resentidos por la furia de los elementos —edificios y caserones en “estática milagrosa” algunos, otros con no pocos apartamentos clausurados por derrumbes o amenaza de desplome.
Tempo lentísimo el de Hotel Nueva Isla. Menos caribeño que nórdico si de ritmo se trata. Más contenido que discursivo si nos referimos a la incontinencia verbal por desgracia común en el cine cubano. Resumiendo: Hotel… es el transcurrir de la vida de un hombre llamado Jorge en cuanto queda de un inmueble otrora hotel de Lujo: el Nueva Isla; la vida de un hombre y su mascota en compañía de algunos vecinos, todos son inquilinos ilegales de un edificio clausurado por las autoridades debido a su estado constructivo.
Se trata de una vida entre ruinas, no arruinada. Al menos eso muestra la actitud de Jorge. Ama, desea, también busca objetos de valor descarnando suelos, techos, paredes —los cree ocultos por antiguos moradores—. A diferencia del inmueble donde ha decidido vivir, el “okupa” Jorge parece un hombre destruido por las circunstancias pero no derrotado.
He visto en La Habana a no pocos tipos como él, cuerdos de remate. Y por legión he contado inmuebles similares por su estado al Nueva Isla. No es rara condición este precario equilibrio. Cámara en mano y sin una ruta previa los he ido cizallando de la realidad con una vieja Sony digital, compacta, anterior casi al Diluvio Universal, pero con un lente Carl Zeiss.
Sin un tele es imposible tomar distancia. Obligatoriamente, quien toma la foto formará parte del escenario en cuestión o de un posible conflicto si resulta poco amigable la reacción del fotografiado; incluso el propio inmueble puede jugar una mala pasada. Deporte de alto riesgo no es, porque este tipo de fotos sitúa al fotógrafo en un contexto de malestar, de resistencia, o de conformidad. Es un espacio social múltiple donde los vectores o líneas de fuerza de la cultura y la política se cruzan, en el cual se puede sondear cómo el poder o empoderamiento real y simbólico es distribuido.
Lo mío con las ruinas no es puro safari. Sucede que en la capital de Cuba el paseante encontrará arquitectura para deleitarse. Buena parte de su masa arquitectónica fue construida antes de enero de 1959, es decir, antes del triunfo de ese huracán llamado Revolución. La maqueta de La Habana, abierta al público en Miramar —barrio residencial del municipio Playa—, da fe de ello. Por colores se representan los períodos en los cuales se ejecutó la edificación de cuanto hoy es La Habana, “ciudad maravilla”.
De su arquitectura me interesa sobremanera una suerte de paradoja: una presencia que es ausencia. La paradoja puede ser entendida de manera inversa y tiene un nombre sencillo: ruinas. Mi interés en Hotel Nueva Isla comienza justo ahí. Quería comparar miradas, comparar conclusiones.
El paseante interesado en la cultura cubana podrá solazarse a su antojo como si hubiese pagado un boleto a una Teotihuacán donde conviven varios estilos arquitectónicos y el mar rompe contra un largo muro levantado sobre el arrecife. Sí, una suerte de ciudadela ya en el ocaso a pesar del update arquitectónico.
Una ruina es al unísono ausencia y presencia. Según dicta la lógica, una suma de escombros sin valor patrimonial no cumple función alguna. Sin embargo, mientras coexiste con otros inmuebles representa un espacio. Justo en ese limbo comienza a cobrar sentido. Porque entre las ruinas es posible la vida: la de arbustos y hierbas afincados en paredes, techos; la de roedores e insectos en oquedades, cañerías; la de perros, aves, gatos, arácnidos; incluso seres humanos sin los recursos para costearse la reparación o construcción de una nueva vivienda —se los ve, o se sabe de su existencia, cuando en una guagua por una avenida habanera se viaja, o en la caminata por sus calles, las señales son inequívocas: ropa tendida al sol, macetas con plantas, zapatos ventilándose—. En el antiguo teatro Campoamor, a un costado del Capitolio Nacional, por no poco tiempo entre sus ruinas hubo vida humana, y en el Hotel Nueva Isla, en el Regina por solo nombrar algunos lugares que en un pasado ostentaron abolengo.
Situarse de manera activa frente a las ruinas de La Habana es una posibilidad. No se trata de solazarse, sino de confrontarla desde las artes, la arquitectura, conectando lo observado con el contexto social, económico, político, tal como el ensayista, crítico y narrador cubano Antonio José Ponte. Él es un “ruinólogo”. Lo confesó en el documental El arte nuevo de hacer ruinas (2006) de Florian Borchmeyer y Matthias Hentschler. También en un arriesgado acto de confesión, hago público mi interés en advertir las notas más altas, o los detalles relevantes, del concierto arquitectónico más o menos barroco —pero definitivamente ecléctico— según el barrio desandado.
Bajo los efectos del agua y el sol, el salitre y el viento, del fuego, de los cambios ejecutados por algún temerario inquilino sin la asesoría de un especialista, con la total ausencia de mantenimiento y descabellados planes constructivos donde la arquitectura deviene elemento de menor importancia, el paisaje urbano de La Habana se transforma. Tal panorama no es similar al de la urbe asolada por un conflicto armado. Su belleza es otra.
Tras una guerra el cuerpo debe emplearse a fondo desde la desolación y la austeridad para mostrarse en su total intensidad (intelectual, política, sexual, económica, social). En una ciudad donde las ruinas parecen ser (y son) parte de la dinámica social y política, incluso de Gobierno, para campear la desolación y la austeridad el cuerpo se emplea a fondo desde su total intensidad (intelectual, política, sexual, económica, social).
Hay que pagarse un boleto a La Habana teniendo entre los planes el disfrute de cariátides desnarigadas, gárgolas tuertas, estatuas descabezadas o con miembros de menos. La maleza colonizando muros es también singular espectáculo, tampoco tienen desperdicio las fachadas Art Deco y Art Nouveau donde las grietas zigzaguean entre balcones, ventanas, pretiles, en sus techos apuntalados. No deberían pasarse por alto los inmuebles neoclásicos venidos a menos, otrora construidos por maestros de obras, hábiles albañiles, carpinteros ebanistas al parecer nunca más disponibles en esta capital, o guardavecinos, rejas, barandas, pasamanos forjados y tejidos como ya no es posible.
¿Habrá tiempo todavía de fundar un “Buena Vista Building Club” para edificar algún inmueble o reparto en pleno siglo XXI con verdaderas líneas curvas y rectas, ángulos insólitos, trabajos de cantería y herrería si los llevara, áreas verdes y espacios públicos incluidos similar a los edificados en los 60´s del pasado siglo —las Escuelas de Arte de Cubanacán o el reparto Camilo Cienfuegos en Habana del Este en tanto ejemplos? Todavía queda una reserva de tiempo, la Oficina del Historiador de la Ciudad creó una escuela de oficios. Algunos viejos inmuebles de gran importancia se han rescatado, basta caminar la zona colonial. Pero La Habana es mucho más que su “casco histórico”.
Ah, olvidaba la influencia morisca, también en La Habana está, para decirlo rápido y mal búsquense en inmuebles mil y una vez transformados columnas, arcos, celosías y balcones. O esas viejas construcciones coloniales imposibles ya de restaurar. Incluso no pocos inmuebles agrupados en la corriente modernista comienzan a ostentar los primeros signos del ocaso.
El reconocido arquitecto cubano ya fallecido Mario Coyula (1935-2014), además profesor, crítico y escritor, puso el dedo en la llaga cuando en una entrevista dijo “desde un inicio [en los primeros años de la Revolución] primó un enfoque equivocado, el de concentrarse en la construcción de viviendas y no en el mantenimiento de lo que ya existía. Eso ha sido una característica que se ha mantenido durante 50 años, dedicarse a construir y no conservar lo que ya existe”.
¿Cuánto de mal podría significar para la ciudad una política que no contemple el mantenimiento de lo construido? La respuesta parece obvia. Pero si el plan tuviera como objetivo el arte de edificar ruinas el asunto no es descabellado.
Hasta el momento parece rentable esa suerte de paisaje citadino erosionado o en camino a la erosión total. Porque en ese punto los inmuebles alcanzan la condición ideal para ser incluidos en un tour donde el interesado tenga la oportunidad de interactuar además con las artes cubanas, la sociedad, su política. Alrededor de las ruinas la vida está en flor. Allí donde las grietas ascienden cual sierpes, las paredes están descorchadas y hay grafitis con motivos patrios, se crea un restaurante de alto estándar incluido en las recomendaciones de Trip Advisor: La Guarida. Un escenario similar es el paisaje de fondo del grupo Buena Vista Social Club, el documental de Win Wenders es fiel testimonio. El cine también se lleva su cuota: el hermosísimo documental Suite Habana (2003) de Fernando Pérez es un buen ejemplo entre otros. Por lo tanto, será un tour para nada desdeñable.
Tabaco, ron, música tradicional, comida criolla y mulatas, murales políticos donde Guerra Fría no es pasado, más el transitar de los viejos autos americanos aderezan el eclecticismo arquitectónico matizado por la característica de las ruinas: su ausencia/presencia.
Centro Habana, La Habana Vieja, también Cerro, Guanabacoa, Regla… Un recorrido imposible de cubrir en un par de jornadas, en los 15 municipios de la Capital aguardan no pocas ruinas merecedoras de incluirse en el tour La historia de una ciudad contada por sus ruinas: Iglesias, escuelas, cines, fábricas, parques, teatros, liceos, estadios, antiguos hoteles, palacetes, casas, edificios multifamiliares, también las calles y aceras.
¿Algunos tips para el tour?: mucha agua embotellada, protector solar de alto SPF, camisa de mangas largas, sombrero. La cámara puede ir incluida, pero nunca deberá olvidarse la distancia y desconexión generada cuando vemos La Realidad a través de la máquina fotográfica, porque se trata de pensar en el viaje, de vivirlo, y no de entender, desplazado en un álbum fotográfico, la experiencia de la travesía.