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Livio Garzanti, editore di razza

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L'editore Livio Garzanti in una foto degli anni '80

“Ma lei è così ingenuo da credere che ci siano ancora editori?” A fotografare la situazione della crisi della produzione culturale in Italia è uno degli ultimi veri editori che ci sono in questo Paese: Livio Garzanti. Nato a Milano il 1 luglio 1921, figlio dell’editore Aldo Garzanti, diventa direttore de L’illustrazione Italiana durante il periodo del fascismo. Successivamente, negli anni ’50, rileva l’omonima casa editrice e inizia la sua vera e propria attività editoriale.

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Il logo della Garzanti

La svolta avviene durante gli anni 1953-54 quando incontra il poeta Attilio Bertolucci. Così Garzanti rievoca il loro incontro: “Era un uomo colto che aveva lavorato per Guanda. Morto Guanda si rese disponibile. Nacquero così una collaborazione e un’amicizia che è durata tutta la vita. Francamente mi sono commosso più alla sua morte che negli anni in cui ci siamo frequentati. Avemmo varie questioni, screzi, differenze di opinioni. Ma so che senza di lui non avrei mai avuto la partenza editoriale che ho avuto. Basti dire che grazie a lui arrivò Quer Pasticciaccio di Gadda”. L’anno successivo lancia l’emergente Pier Paolo Pasolini con Ragazzi di vita e Paolo Volponi con Memoriale.

Livio Garzanti, una vita da raccontare

Garzanti e i suoi autori

Nel corso della sua carriera di editore, oltre a Pasolini, pubblica autori come Jorge Amado, Goffredo Parise e Truman Capote. E, come abbiamo visto, Carlo Emilio Gadda di cui ci fornisce un ritratto curioso: “Non me ne voglia – confida – e non si aspetti cose mirabili. Penso a Gadda e sento Bossi. Mi mandava lettere, che poi diedi a Dante Isella; io, sovente, lo torturavo approfittando della sua singolare psiche. Mi ha aspettato molte volte in doppiopetto blu sugli scalini della sede Garzanti di Roma, mi omaggiava odiandomi, sempre con un leggero inchino”. Con Pier Paolo Pasolini, al contrario, il rapporto fu sempre particolarmente controverso: “Era un puro, un cataro. Mi era molto amico, ma non c’era tra noi confidenza. Mi lasciò per andare da Einaudi perché avevo pubblicato un autore da lui detestato, che poi vinse lo Strega. Mi colpì profondamente la nostra ultima passeggiata notturna, le confidenze che mi fece; tutti però temevano qualcosa, a causa degli ambienti che frequentava. Pasolini era un grande, possedeva il dono, il sentore, la grazia della raffinatezza letteraria”.

Erano gli anni della rivalità tra Bartali e Coppi nel ciclismo. E tra Garzanti ed Einaudi nell’editoria. I due non si amarono mai come sottolinea lo stesso Garzanti: “Non l’ho mai conosciuto, ma era un presuntuoso senza cultura propria. Ha imposto la sua forma di presunzione a tutta la cultura italiana. Era un comunista megalomane. Io posso sembrare un po’ nervoso nel rispondere, o polemico, ma quando penso al Sessantotto… In Francia è durato due o tre giorni, in Germania li hanno accoppati, da noi è arrivato tardi, alla fine del ’69, ed è durato un tempo infinito: una cultura del cavolo, volevano fare gli eroi senza i fucili dei partigiani”.

Garzanti, editore e autore

Nel corso della sua vita, Livio Garzanti non è stato solo un editore di successo ma anche un raffinato autore di narrativa scrivendo libri come “L’amore freddo” (1980), “La fiera navigante” (1990), “Una città come Bisanzio” (1985), “Amare Platone” (2006). Goffredo Parise s’ispirò poi proprio a Livio Garzanti per scrivere “Il padrone” (1965). 

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La copertina di “Amare Platone”

Anche a novant’anni suonati, Livio Garzanti continua a mostrarci quale fosse lo spessore dell’editore italiano degli anni passati; un imprenditore in senso industriale con una profonda cultura personale, un personaggio che, specie nel dopoguerra, ha contribuito in maniera determinante alla rinascita e allo sviluppo della letteratura in Italia. Sarà anche per la sua esperienza di vita e per la sua caratura intellettuale che è portato a vedere in maniera negativa la situazione attuale del sistema cultura nella Penisola: “La miseria intellettuale di questo Paese si riflette nei suoi politici. Seguire le cronache dei partiti è come assistere a miserabili incontri calcistici di serie C”. Non migliore è il suo giudizio sugli intellettuali e sulle personalità della cultura contemporanea per i quali usa i termini “tangheri” e “fregnacciate”. Sentiamo le sue affermazioni in merito, parole che ci lasciano con un interrogativo inquietante: “Romanzi? Narrativa? C’è ancora qualcosa che vale la pena leggere? Me lo dica, per favore, perché i libri durano qualche giorno e niente si fissa nella memoria. Siamo sommersi dai premi ma non ricordiamo nemmeno i titoli dei vincitori dello scorso anno. Vedere i ‘letterati’ di oggi mi fa senso, anzi mi sembra di essere caduto in una pozzanghera. Quando andavo alla Garzanti, nel mio ufficio, incontravo Dino Buzzati, Pietro Bianchi, Orio Vergani, Attilio Bertolucci. Ludovico Geymonat veniva con il suo progetto di una storia del pensiero filosofico e scientifico, Emilio Cecchi e Natalino Sapegno con quello dedicato alla letteratura. Oggi?”.