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Contrasti, tra sport e cultura. Interviene Andrea Antonioli

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La testata della rivista di sport e cultura "Contrasti"

“È visto molto male nel mondo dei media ufficiali (che siano di destra o di sinistra), celebrare la decenza della gente comune o la capacità del popolo di autogovernarsi in modo diretto. Questa sarebbe, nella migliore delle ipotesi, un’illusione rousseauiana (tutti sanno, infatti, che l’uomo è cattivo per natura e sempre pronto a danneggiare i suoi simili) e, nel peggiore dei casi, un’idea populista, della quale non sappiamo abbastanza dove ci può portare”. In poche righe, il filosofo Jean-Claude Michéa riassume uno dei grandi problemi della contemporaneità: il rapporto tra le elite e le persone comuni. E non è un caso che le riflessioni dell’intellettuale di Montpellier investano anche il mondo dello sport e del calcio in particolare.  Per saperne di più sul panorama culturale del settore, siamo andati a intervistare Andrea Antonioli, direttore della rivista on-line Contrasti.

Sport e cultura, parla Andrea Antonioli

Andrea, prima di tutto benvenuto sulle pagine elettroniche di Dailygreen. Attualmente, sei Direttore della rivista Contrasti. Direi di partire dalle sue origini, dalla sua linea editoriale e dalla sua nascita.

Contrasti è una rivista abbastanza giovane essendo presenti da poco più di un anno. L’origine e la linea editoriale coincidono fortemente negli intenti ed è proprio dall’esigenza di dare spazio a un certo tipo narrazione che abbiamo deciso di fondare questa testata. Il racconto sportivo è ormai egemonizzato da due principali ideologie di racconto: da un lato, lo sport come show e, dall’altro, lo sport come scienza. Nel primo caso seguiamo alla lettera il nocivo modello americano in cui i calciatori diventano icone del nulla che avanza, in una retorica da top player superficiale e stucchevole. Qui si apre un mondo, dallo sdoganamento dei profili social dei calciatori ai nuovi scarpini fluorescenti, dalle classifiche dei gol più belli sulle “canzoni trend” di Mtv alle prime pagine dei giornali in cui troneggiano i faccioni degli attaccanti più prolifici (e si spingono fino a fare fotomontaggi di Dybala con il pallone d’oro e Messi e Ronaldo tristi sullo sfondo, chiedere al Corriere dello Sport per credere). Si tratta di un modello individualista e, ripeto, terribilmente superficiale. Dall’altro c’è il calcio come scienza, in un delirio di lavagne tattiche, diagonali e transizioni. Anche questo è un modello ultra-contemporaneo del pallone, che ben rappresenta un progressismo dell’accelerazione continua che ha perso lo spirito, il cuore e la connessione sentimentale con i tifosi. Noi ci proponiamo solamente di riportare lo sport alla sua origine, in un contesto culturale in cui “cultura” rimanda all’etimologia del termine, dal latino “colere”, coltivare; intendiamo quindi le credenze, i valori, i simboli ma anche le attività umane. In questo senso lo sport è un’altissima manifestazione culturale che racchiude molti aspetti umani: il fisico e la guerra, la passione, lo schierarsi come prendere parte, il tifo e la rappresentanza, il legame con la comunità e con la propria terra, ma anche l’esigenza di ribellarsi alla ripetizione, la tensione alla gioia, all’esaltazione e alla libertà. Un semplice scatto è un atto libero e rivoluzionario.

Negli ultimi anni c’è stato un proliferare di riviste sul calcio dedicate agli appassionati in cerca di approfondimenti sportivi e culturali. Non ti sembra ci sia una sorta di ritorno di attenzione verso gli “intenditori”?

Onestamente non so quanto sia attenzione verso gli “intenditori” (tra mille virgolette) o quanto semplicemente interesse. Partirei innanzitutto dal presupposto che ormai assistiamo a un’iper-produzione dell’offerta (siti, blog e pagine) rispetto alla domanda.

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La pagina Facebook della rivista Contrasti

In più, a livello generale, oggi paghiamo il crepuscolo degli idoli, la morte delle ideologie, la fine della politica partecipata e la difficoltà delle religioni: è naturale che l’interesse debba sfociare in altri canali e lo sport è uno di questi, considerato anche che – banalmente e senza offesa per nessuno – è alla portata di tutti e spesso non richiede un grande sforzo di interpretazione o partecipazione. In questo senso l’uso dei social è cruciale e guai a pensare che queste piattaforme siano solo uno “strumento” che noi usiamo nel modo che riteniamo più consono; al contrario, esse già impongono una narrazione (penso ai caratteri limitati di Twitter, ma anche a Facebook e Instagram che si prestano perfettamente alla navigazione tramite smartphone). È il contenitore che influenza il contenuto e i dati che abbiamo in mano circa il traffico sul sito, che appunto per quasi l’80% proviene da telefono mobile, stanno lì a testimoniarlo. Difficilmente dal cellulare si è disponibili a una lettura approfondita e concentrata, e questo è un tema enorme poiché ne risentono anche long-form di assoluta qualità che, spesso, restano “lettera morta”.

Non c’è dubbio che vi sia stato un progressivo calo della passione popolare verso un calcio che sembra sempre più di plastica. A questo, potrebbe aggiungersi anche la mancanza di personaggi, penso a un Eric Cantona, in grado di catalizzare l’attenzione del grande pubblico?

Questo certamente è vero ma, ritornando al punto di prima, non è possibile trattare il calcio come una materia a sé. Se non ci sono più calciatori in grado di infiammare il grande pubblico è perché non ci sono più uomini in grado di scaldarlo e, in ultima istanza, perché la società tende ormai a produrre uomini e donne tutti uguali, schiavi del si dice e privi di un reale pensiero critico. È inutile lamentare la mancanza di questi personaggi, così com’è inutile scagliarsi contro la finanziarizzazione o la spettacolarizzazione del calcio astraendo dal contesto: il pallone è parte di processi enormi, mondiali, che investono ogni ambito del reale e del simbolico. Come diceva Fidel Castro, “gridare abbasso la globalizzazione equivale a gridare abbasso la legge di gravità”. Il punto allora non è fare discorsi da Bar Sport in cui si rimpiange l’Eden, bensì chiedersi criticamente se oggi, nell’epoca del capitalismo assoluto, ci possa essere un’anima nello sport. Noi, malgrado tutto, pensiamo (e speriamo) che questo sia ancora possibile.

Come valuti lo stato del giornalismo sportivo contemporaneo?

Ti proporrei di passare alla prossima domanda ma mi hanno insegnato a rispondere sempre, se non altro per educazione. Diciamo che il giornalismo sportivo vive il periodo più buio della sua breve storia, ma è in buona compagnia. Il giornalismo, in generale, ha toccato senza alcun dubbio il punto più basso di sempre. O è drogato, intossicato, nel migliore dei casi “ideologico” (e qui usiamo il termine in senso marxiano, come artificio che si traveste da natura) oppure è semplicemente una puttana, pronta a vendere le sue grazie e la sua voce a chi di dovere. E per quanto riguarda gli intrecci e i rapporti con persone o gruppi “di potere” (che non devono essere immaginati come lobby o massonerie, ma che sicuramente indirizzano la narrazione) mi sento di affermare che la situazione dei media sportivi sia ancor più tragica di quella dei media tradizionali.

Si sta sempre più affermando lo storytelling sportivo sulla scia del grande successo di personaggi come Federico Buffa. Cosa ne pensi?

Penso che Federico Buffa sia bravissimo. Sono anche stato a vederlo a teatro e la narrazione che porta avanti è stata di esempio per noi; andare nei luoghi che hanno formato uomini (ancor prima che calciatori) e raccontarli, narrare il contesto sociale, politico, culturale, abitua certamente le persone a capire che lo sport – soprattutto in alcune parti del mondo – è stato una vera e propria religione laica.

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Il giornalista Sky Federico Buffa

L’unico timore è che possa diventare una moda, anche perché lo storytelling lo devi saper fare, altrimenti viene fuori una pagliacciata che privilegia la forma e l’ego del narratore a danno dei contenuti.

Non tralascerei un aspetto sentimentale del calcio, Andrea. Soprattutto sui social network c’è un revival del calcio degli anni ’90, penso a pagine come Seria A – Operazione Nostalgia. Cosa ne pensi di questo particolare fenomeno sociologico?

Operazione nostalgia, nel migliore dei casi, è una gigantesca operazione di marketing, nel peggiore una delle cose più idiote che abbia visto negli ultimi anni. Intendiamoci, batte su un tasto dolente e molto sentito da appassionati e tifosi, e a tal proposito ho a cuore una frase di Heidegger che coglie nel profondo il senso del tema: “La nostalgia è il dolore causato dalla vicinanza del lontano”. La nostalgia è certamente un dolore, uno strappo, una lacerazione perché si parla di qualcosa che non potrà più tornare; e ancor più male fa sapere che quel dolore è vicino, presente, pur essendo ormai lontano, relegato nel passato. Operazione Nostalgia sfrutta alla perfezione tutto ciò, ma ritorniamo ancora una volta sul discorso di prima: tirare fuori il calcio dalla cornice sociale, culturale, politica, è un’operazione che, con un eufemismo, potremmo definire “demagogica”, per essere signori. Paradossalmente credo che, da questo punto di vista, i nostalgici e i progressisti della tattica come dogma partano dagli stessi presupposti: settorializzano il calcio e si scontrano in un duello ideologico che assomiglia a quello tra conformisti e anti-conformisti, in cui entrambi gli schieramenti sono schiavi (e vittime) del sistema.