Il 23 marzo 2002 viene comunicato che il prestigioso Distinguished American Award, il premio per il “più illustre americano” dell’anno è stato assegnato al settantacinquenne Harry Belafonte, cantante simbolo della lotta antirazzista per la pace e per i diritti civili e sociali
Un omaggio all’uomo e all’artista
Omaggio all’uomo e all’artista, la consegna del premio, si svolge alla John Fitgerald Kennedy Library di Boston e diventa uno schiaffo morale all’intero establishment statunitense e un’occasione per valorizzare una persona che ha anteposto l’impegno civile alle ragioni di immagine e di carriera. Per Belafonte tutto inizia negli anni Cinquanta, quando, all’apice della popolarità dopo aver venduto più di un milione di copie dell’album “Calypso”, annuncia la sua intenzione di non esibirsi più negli stati e nelle città del “profondo Sud” degli Stati Uniti colpevoli di mantenere in vigore disposizioni, regolamenti, norme punitive o segregazioniste nei confronti della comunità afroamericana. A “Mister trentadue denti”, come fino a quel momento era chiamato dai tabloid popolari, viene appiccicata l’etichetta di personaggio scomodo, ma lui non si scompone, alza le spalle e tira diritto. Organizza marce, sit-in, firma documenti, si impegna in prima persona e a chi tenta di convincerlo a moderare un po’ i toni racconta la sua vita di giovane di colore nato nel ghetto nero di Harlem da genitori giamaicani
L’impegno sociale e civile
Il suo impegno artistico è in linea con quello sociale e civile. Vola alto, al di sopra delle nuvole della produzione di tendenza e delle regole consolidate, facendo conoscere al mondo intero i ritmi, i suoni e i colori nati dalla contaminazione tra il folklore caraibico e la tradizione nera dei canti di lavoro degli schiavi. Ogni occasione è buona. Già nel 1951 i suoi concerti al “Village Vanguard” di New York, con i fedeli chitarristi Millard Thomas e Craig Work, sono un appuntamento di culto per gli intellettuali e i giovani della città. La consacrazione arriva qualche anno dopo con il grande successo internazionale “Jamaica farewell” e “Banana boat song (Day-o)”. Inarrestabile, la sua popolarità cresce ancora quando, insieme a Dorothy Dandridge, è il protagonista di “Carmen Jones”, il film di Otto Preminger che rilegge in chiave moderna la “Carmen” di Bizet. A partire dagli anni Settanta chiude con lo spettacolo “leggero” e mette la sua popolarità interamente al servizio di quegli «imperativi civili e morali» che guidano la sua azione artistica e politica. Più nessuno riuscirà a fermarlo, né le campagne discriminatorie e neppure gli arresti clamorosi, come quello avvenuto negli anni Ottanta davanti all’ambasciata sudafricana a Washington nel corso di una manifestazione contro l’apartheid. Le battaglie, come gli esami, per lui non finiscono mai. Indignato dalla cieca voglia di guerra che pervade il suo paese dopo gli attentati dell’11 settembre fa sentire di nuovo la sua voce sostenendo che «…non si può, per rabbia o desiderio di vendetta, replicare indiscriminatamente, in modi che possono comportare l’ulteriore perdita di vite innocenti», perché, come scrivono gli studenti di Harvard: «anche la guerra è terrorismo». Al suo fianco ci sono gli stessi pochi intellettuali e i tanti cittadini che contribuiscono a regalargli un premio significativo come il Distinguished American Award.